Era una sera come altre quando sento l’avviso di una mail. Vedo che si tratta di un’autrice a me sconosciuta che, con garbo e timidezza, mi propone di leggere le Sue opere, in particolare una Sua dilogia. Incuriosita da titoli eclettici e trama intrigante, mi immergo in una nuova bellissima avventura, che mi ha permesso di conoscere, apprezzare ed ammirare lei, Deborah P. Cumberbatch.
QUALCHE INFORMAZIONE BIOGRAFICA
Deborah P. Cumberbatch, classe ’97, è nata e cresciuta a Napoli, il che l’ha condannata a una vita di dipendenza da caffè e pizza. Riuscirà la nuova città che l’ha accolta, Torino, a sopravvivere all’uragano Deborah e alle sue dipendenze?
È laureata in psicologia, facoltà che ha scelto perché è affascinata dai dinamismi della mente umana, e ha intenzione di diventare una psicologa forense, sebbene il suo sogno sia quello di fare la scrittrice sin da quando ha aperto gli occhi.
Lettrice compulsiva, ossessionata dalle parole e dalla magia che possono creare con il loro semplice intrecciarsi, ha un amore incondizionato per qualunque buon libro. La lettura e la scrittura hanno sempre avuto il sapore di casa per lei, un porto sicuro in mezzo al caos della vita.
Cresciuta con la Disney, ha fatto suo il mantra del creatore di universi che le ha insegnato a non arrendersi mai: “Se puoi sognarlo, puoi farlo. Ricorda sempre che questa intera avventura è partita da un topolino”.
Ma quale modo migliore di presentarla anche a voi se non attraverso le Sue stesse parole?
INTERVISTA ALL’AUTRICE
1- La prima domanda è di rito: quando hai iniziato a scrivere e cosa ti ha spinto a farlo?
La scrittura ha sempre fatto parte della mia vita, sin da quando ne ho memoria.
Quando ero piccola mia madre ha provato a insegnarmi a disegnare (con scarsissimi risultati, aggiungerei. Scusa, mamma!) e ricordo chiaramente che a me importava davvero poco delle figure che creavo, che in effetti altro non erano che esseri informi con quattro arti e una testa sproporzionata. Ciò che mi interessava davvero era che quelle persone avessero una storia, che potessi inventare qualcosa su ognuno di loro e divertirmi a dar loro un percorso.
Io amo le storie. Amo che ogni persona che incontriamo abbia una storia da raccontare e con il tempo mi sono accorta che più di tutto io adoro crearne.
C’è magia nelle parole, c’è un potere forte e antico in ogni singolo grafema che ha viaggiato nel tempo e quando mi ritrovo a giocare con le parole, a intrecciarle per dar vita a qualcosa di nuovo, mi sento bene.
Il momento in cui ho capito questo è stato quando avevo circa sette/otto anni. Stavo guardando “Il Signore degli Anelli” per l’ennesima volta e avevo deciso di scrivere le battute del film su un quaderno come una sorta di libro, così da poterlo rileggere quando volevo. Quando ho raccontato il mio piano geniale a mio padre, che sì era un plagio a tutti gli effetti, lui mi ha detto: “Perché non scrivi un libro tutto tuo?”.
È stata solo una frase, eppure mi ha aperto un’infinità di mondi meravigliosi che mi hanno salvato la vita in più modi possa spiegare. Da allora ho iniziato a scrivere le mie storie e non ho più smesso.
2- Cosa rappresenta nella tua vita la scrittura?
È difficile da spiegare.
Immagina di essere in un bosco intricato e fitto durante il tramonto. Pensa di aver perso la strada di casa e di non avere alcun indizio spaziale per tornare indietro. Sei disorientata e hai paura. Il freddo inizia a scuoterti sin nelle ossa e dopo un po’ inizi a credere che nessuno verrà mai a cercarti, che sparirai in quel bosco insieme a ogni ricordo. Ti accasci su te stessa, sei in preda al panico e il respiro è inghiottito dalla notte.
Poi però dal nulla appare una luce calda che si fa strada tra le fronde degli alberi e ti riporta di nuovo sulla via del ritorno.
Questo rappresenta per me la scrittura: è casa, è ossigeno, il mio posto sicuro quando tutto il mondo va in frantumi.
Quando scrivo non importa cosa sia accaduto nella mia vita o cosa succederà, io trovo il mio posto nel mondo, l’unico che abbia senso.
3- E’ uscito da poco il tuo terzo libro, “Intramoenia”, dopo la dilogia “Ubi tu”, “Ibi ego”. A cosa ti sei ispirata per portarci delle vicende così nuovi e particolari?
In realtà Intramoenia ufficialmente è il mio sesto romanzo. Prima della dilogia ho pubblicato la mia trilogia paranormal romance “Drop of blood”, che risale a un po’ di tempo fa.
Non ne parlo spesso perché ho intenzione di ritirarla dalle vendite nei prossimi mesi e riscriverla: è una storia a cui sono legata, ma è stata scritta quando ero molto piccola (il primo romanzo ha accompagnato i miei diciassette anni), il mio stile era molto acerbo e risale a un periodo in cui non avevo un bel rapporto con il mondo, quindi voglio darle qualcosa di più.
Per la stesura della mia dilogia fondamentale è stato il percorso di studio che ho intrapreso: credo che se non avessi frequentato la facoltà di psicologia, la storia di Megara e Stephen non esisterebbe. Il mio primo esame universitario infatti prevedeva un solo paragrafo degli scritti di Paul Ekman (il fondatore della cinesica, la scienza che fa da cornice alla mia intera storia), ma è bastato quello a convincermi a comprare la sua intera bibliografia. Da lì poi la storia si è creata da sola nella mia testa.
Per “Intramoenia” invece è stato più complesso. Dopo “Ibi ego” sono stata ferma per mesi, non mi sentivo pronta a scrivere di Jax, tutto mi sembrava sbagliato. Poi è apparsa Sarabi nella mia testa, lei e la sua voce che gridava finalmente tutto quello che ho sempre voluto dire e per cui non mi sono mai sentita all’altezza e ho deciso di darci una possibilità.
4- Nei tuoi testi, incontriamo dei personaggi finemente caratterizzati ma a quale ti senti più legata? Qualcuno di loro esiste anche nella vita reale?
Rispondo prima alla seconda parte della domanda perché è più semplice: no, nessuno di loro esiste nella vita reale, ci sono sicuramente piccole ispirazioni, ma sono personaggi creati totalmente dalla mia fantasia.
Per quanto riguarda la prima domanda… posso dire che è molto cattiva? Ahahaaah
Devo darti purtroppo una risposta molto banale: sono legata a ognuno di loro, non posso scegliere.
Sono nati nel momento della mia vita in cui avevo bisogno di loro e sono stati il mio salvagente, la mia casa, accompagnandomi per mesi e mesi. In ognuno di loro c’è un pezzo di me, una parte della mia vita e della mia personalità. Il rapporto che si crea con i propri personaggi è viscerale, immagino sia per questo che quando arriva il momento di lasciarli andare è sempre difficile.
5- Se potessi descrivere i tuoi libri con 3 parole quali useresti?
Emozionanti, profondi, intensi. Okay, questa è stata molto difficile!
6- Cosa ti ha spinta ad uscire in self publishing piuttosto che attraverso una casa editrice?
All’inizio della mia avventura, nel 2017, con il primo volume della trilogia, volevo la possibilità di mettermi alla prova da sola, di fare i primi passi nel mondo senza guida, decidendo da sola dove andare.
Con la dilogia, invece, la scelta è stata determinata dal desiderio di gestire da sola la storia dei miei personaggi, senza alcuna interferenza. Temevo che affidandomi a una CE ci fosse il rischio di tagli e revisioni e non me la sentivo. Volevo che la storia fosse affidata ai miei lettori così com’era nata nella mia testa e sono contenta di averlo fatto.
Il self è senza dubbio un azzardo: ti dà la possibilità di decidere da sola, di gestire tutto esattamente come vuoi, dalla creazione della storia all’aspetto della pubblicità, ma ti toglie anche tanto in termini di visibilità e di mezzi. È una questione di scelta personale.
Naturalmente non escludo una futura collaborazione con una casa editrice se ci fossero le giuste condizioni.
7- I titoli scelti per i tuoi libri sono molto particolari e ricercati. In che modo li hai selezionati?
È stata tutta colpa dei miei studi classici, lo ammetto, e dei professori del liceo che mi hanno trasmesso l’amore per la cultura greca e latina, infatti la mia intera trilogia fantasy è ispirata alla mitologia greca.
Il titolo della dilogia è un’antica formula matrimoniale latina di cui sono perdutamente innamorata e che ho diviso tra i due volumi: “ubitu, ibiego” che sta per “dovunquetusia, iolàsarò”. La trovo di una poesia immensa.
“Intramoenia” invece letteralmente significa “tra le mura” ma la mia interpretazione è nascosta tra le righe della storia di Jax e Sarabi e non voglio spoilerarla. Spero di essere riuscita a trasmetterla.
8- Passando dall’altra parte della barricata, che tipo di lettrice sei? Quali generi leggi più assiduamente?
Sono una lettrice onnivora, fiera divoratrice compulsiva di libri. Non so come farei senza la lettura, lo ammetto.
Spazio dal fantasy e paranormal alla narrativa, dal romance ai classici, dagli horror e thriller ai romanzi storici, questi ultimi in particolare sono la mia ultima ossessione. Il mio sogno è quello di avere una biblioteca come quella di Belle e perdermi tra tutti i titoli che aspettano solo di essere scoperti.
9- Nella tua dilogia, si parla molto di cinesica. Come ti sei avvicinata a questo ramo della psicologia?
Come ho detto, è tutto merito dei miei studi universitari.
Ho scoperto questo ramo sconosciuto della psicologia attraverso un paragrafo dell’esame di psicologia generale e ho deciso di approfondirlo da sola nel tempo libero, accompagnata dalla serie “Lie to me”, che adoro follemente e che è stata fatta proprio in collaborazione con Paul Ekman.
Il pensiero che gli esseri umani abbiano quarantatré muscoli facciali, la cui combinazione può dar vita a più di diecimila emozioni diverse, ognuna delle quali ha una sua espressione, è meraviglioso. Non solo siamo capaci di produrre migliaia di espressioni, ma gli esseri umani sembrano avere una particolare predilezione per le microespressioni: esse durano meno di un quarto di secondo, ma sono mimiche emotive complete, a tutto viso, che rivelano pienamente un’emozione nascosta. Qui entrano in gioco i miei lie detectors!
10- In “Intramoenia”, apprendiamo la storia di Gwendolin Lisbeth attraverso il ritrovamento del suo diario. Mi ha molto colpito. Ti sei basata su fatti realmente accaduti?
Gwendolin e Roth non sono personaggi realmente esistiti, la loro storia, gli eventi che si troveranno a vivere non sono presi da alcun documento storico, sebbene quando portavo alla luce la loro storia ho provato emozioni così vive che c’è una parte di me che crede che siano esistiti davvero.
La storia di Gwendolin è tuttavia ispirata a grandi linee alla storia di Simon Wiesenthal, un ingegnere e scrittore austriaco di origine ebraica sopravvissuto all’Olocausto, il quale dedicò gran parte della sua vita a raccogliere informazioni sui nazisti in latitanza per poterli rintracciare e sottoporre a processo. Egli infatti fu catturato dai nazisti e fu internato in vari campi di concentramento, dove sfuggì all’esecuzione in diverse occasioni. Fu liberato dalle forze statunitensi solo nel 1945: quando i soldati lo trovarono, pesava meno di 45 chilogrammi ed era senza forze. Appena si riprese iniziò a lavorare per conto dell’esercito statunitense, raccogliendo informazioni per i processi contro i crimini di guerra nazisti e aiutando le vittime della seconda guerra mondiale. Il suo lavoro è stato così importante che nel 1977 gli fu dedicata l’agenzia per la memoria sulla Shoah, il Centro Simon Wiesenthal (Simon Wiesenthal Center).
Non appena ho letto la sua storia, conosciuta per caso grazie a una serie televisiva, ho saputo che volevo ricordarlo in qualche maniera. Come scrivo nella mia nota autrice, non ho molti modi per farmi sentire, la mia voce non ha grande risonanza, però la scrittura è la mia unica arma, proprio come Gwendolin, così nel mio piccolo ho voluto che Simon fosse ricordato.
Se anche una sola persona lo ricorderà, allora questo sarà tutto quello che conta per me. Vorrà dire che la mia voce è servita.
Non posso che consigliarvi di immergervi nella lettura dei suoi testi e di lasciarvi cullare dalle emozioni che scaturiscono da ogni sua parola.