“American Fiction” è una pellicola tanto semplice quanto profonda.
In principio, nella letteratura come nel cinema, l’afroamericano veniva stereotipato e raffigurato come una macchietta. E, la maggior parte delle volte, ricopriva il ruolo dello schiavo, costretto a lavorare nei campi di cotone (o in qualsiasi altro luogo degradante) a servizio di un padrone (bianco ovviamente) che non lo identificava come essere umano. Costretto in qualche maniera, per interi secoli a portare con sé, come un macigno, la storia di una razza piena di cultura ma perseguitata dall’odio.
Ma nel corso dei decenni, grazie anche all’evoluzione del pensiero sociale in cui l’afroamericano non veniva considerato più come uno schiavo. Lo stesso ha subito una crescita nel panorama culturale. Invero, la maggior parte degli scrittori, e quindi dei registi, hanno iniziato a raffigurarlo come una persona, e non un oggetto da deridere (vedi blackface). Anche, se, com’è giusto che sia, la storia anche se fa male, va raccontata, tramandata. Ricordata.
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In epoca contemporanea, anche se proveniente dal ghetto, con i pantaloni larghi e il berretto da rapper, e, si, ancora stereotipato, l’afroamericano è sempre stato oggetto di narrazione. Ma, anche se proveniente dal ghetto, in qualche modo, la sua storia è sempre stata raccontata. Vi domanderete perché. Perché interessante, affascinante.
Nell’America odierna, un professore universitario, nonché scrittore che ha riscosso un discreto successo grazie ai suoi romanzi, si trova a vivere una spiacevole crisi. Sebbene le idee non gli manchino di certo. Il problema di Thelonious Ellison (Jeffrey Wright), per tutti “Monk”, è che nessun editore ha intenzione di pubblicare il suo ultimo manoscritto. Perché ritenuto “non abbastanza nero”. Difatti, quello che gli editori americani desiderano, è un romanzo in cui l’afroamericano venga rappresentato con la più stereotipata delle immagini. Cosa che Monk si rifiuta categoricamente di fare. Per questo, quando riceverà un inaspettato successo, si troverà a lottare contro tutti i suoi principi.
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Senza troppi di giri di parole “American Fiction”, opera prima da regista di Cord Jefferson, è un gioiello di scrittura, regia e interpretazioni. Jeffrey Wright e Sterling K. Brown, entrambi candidati ai Premi Oscar, interpretano due fratelli molto diversi tra loro. Ma uniti da una vita fatta di sofferenze e traumi e che, nonostante le loro divergenze, si sostengono a vicenda.
Monk è difatti una persona colta, convinta delle proprie idee e pronta a sbeffeggiare l’intera società americana, e Jeffrey Wright riesce a donare corpo, anima e volto ad un uomo tanto tormentato quanto profondo.
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La sceneggiatura (scritta dallo stesso Jefferson), adattata dal romanzo di Percival Everett, gira tutta attorno al personaggio di Monk. E, per mezzo delle forti convinzioni del professore, riesce a ridicolizzare un paese che, negli anni ’20 del nuovo millennio, si aspetta ancora che il negro venga rappresentato con gli stessi, identici e banali stereotipi del secolo scorso.
L’editoria assume quindi il ruolo metaforico di quella parte della società americana che non riesce ad abbandonare l’idea, per quanto antiquata, che l’afroamericano debba essere rappresentato e considerato come il disagiato proveniente dalla zona più povera della città. Ma il più grande pregio di “American Fiction” è il modo in cui riesce a trattare il tutto con un’ironia talmente leggera e sottile da risultare addirittura geniale.
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Tuttavia, il merito di un tale successo, va attribuito alla sceneggiatura quanto alla bravura degli interpreti e, soprattutto, all’eccelsa direzione di Cord Jefferson. Se la brillante scrittura del regista classe 1982 riesce a rendere leggera una pellicola intensa come “American Fiction”, la regia fluente, pulita e (se vogliamo) minimalista, è il perfetto collante di una storia in grado di dimostrare che a volte c’è bisogno di non prendersi troppo sul serio per risultare credibile.
Come l’assurda trama presentata da Monk, che avrebbe semplicemente potuto essere uno scherzo piuttosto che un best seller, “American Fiction” riesce a non prendersi troppo sul serio. Ironizzando sul fatto che lo stesso paese che ha eliminato Omero dai programmi di studio poiché non rappresentava abbastanza le minoranze non riesca a non accettare l’idea bigotta (e razzista aggiungerei) che l’afroamericano popola gli stessi ambienti abitati dall’uomo bianco.
Con sarcasmo, sagacia e una certa dose di cautela, la pellicola di Jefferson rappresenta ottimamente l’ipocrisia di un sistema costrittivo che, spesso, non lascia libertà di pensiero. Neppure quando si tratta di creare e inventare opere creative come un romanzo.