Presentato all’81esima Mostra del Cinema di Venezia, dove ha riscosso una standing ovation, “Beetlejuice Beetlejuice” è una pellicola che non eguaglia la qualità del suo predecessore.
Euforica, grottesca e, a tratti, inquietante (se non macabra) “Beetlejuice”, pellicola datata 1988, aveva dato vita ad un personaggio iconico. Forse il migliore della filmografia di Tim Burton. Sebbene la sua bizzarra quanto viziosa figura apparisse per appena 17 minuti (circa). La storia narrava le vicende dell’eccentrica famiglia Deetz, composta dai coniugi Charles e Delia (Jeffrey Jones e Catherine O’Hara) e la loro figlia goth Lydia (Winona Ryder). Giunti nella nuova casa, questi si trovavano costretti ad affrontare la presenza dei fantasmi di Adam e Barbara (Alec Baldwin e Geene Davis), i vecchi proprietari della dimora, e gli scherni di Beetlejuice, uno spirito maligno autodefinitosi bio-esorcista (Michael Keaton).
Per quanto surreale e singolare, la trama aveva una certa logica e la pellicola risultava godibile e divertente. Cosa che non si può certo dire del secondo capitolo dedicato al bio-esorcista, dal titolo “Beetlejuice Beetlejuice”.
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Il film si apre con un sequenza tipica del cinema di Tim Burton. La telecamera ci mostra le case, i luoghi e i negozi di Winter River, la cittadina dove si svolgeva la vicenda narrata in “Beetlejuice”. E dove i Deetz sono costretti a tornare per celebrare un funerale.
Accompagnata dalla colonna sonora composta da Danny Elfman, affezionato collaboratore del regista di “Edward mani di forbice”, la sequenza ci riporta alle origini dell’estetica di Burton (quando era ancora in grado di girare un film decente). E quelle ambientazioni tanto tetre quanto avvolgenti che, almeno alla fine degli ’80 e all’inizio degli anni ’90, erano un genere tipico all’individualità del regista.
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La prima sequenza di “Beetlejuice Beetlejuice”, oltre a donare un certo effetto nostalgia, riesce a trasmettere delle forti emozioni. E, soprattutto, le giuste dosi di adrenalina e curiosità verso ciò che il film ha da offrire. O meglio, quel che il primo film è riuscito a tramandare. Ma purtroppo, le note positive, si riducono a questo.
E vogliamo parlare di Wolf Jackson, il poliziotto dell’Oltretomba impersonato da Willem Dafoe che, come il Mister Wolf di “Pulp Fiction”, dovrebbe risolvere i problemi? Un personaggio che avrebbe potuto essere interessante e pieno di potenzialità se fosse stato ben sviluppato e, soprattutto, se ai fini della storia, fosse servito a qualcosa oltre a farsi congelare assieme alla sua squadra agenti che sembrano più imbranati del commissario Winchester (ricordate i Simpson?). Ma come si può sprecare così un talento come quello di Willem Dafoe?
E nonostante l’alchimia tra Jenna Ortega e Winona Ryder sia palpabile in ogni sequenza che le vede protagoniste, il loro rapporto madre figlia, inizialmente distanti e poi unite come non mai, non è certo la più originale delle trovate, anzi.
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Così come non eccelle l’interpretazione di Michael Keaton nel suo Beetlejuice, il personaggio che dà il titolo alla pellicola.
Per quanto sia sopra le righe, come richiesto dal copione e dalla caratterizzazione, il ruolo dello Spiritello Porcello, che sembra aver perso tutto il suo macabro ma coinvolgente sex appeal, risulta molto sottotono. Al contrario della versione del 1988, che faceva di tutto (e sottolineo di tutto) pur di attirare tra le sue grinfie sia la famiglia Deetz che i coniugi Maitland, in questa nuova pellicola sembra più propenso a starsene seduto in poltrona a leggere il suo giornale e delegare tutto al povero Bob.
Tirando le somme. “Beetlejuice Beetlejuice” è forse il peggior film di Tim Burton? Certo che no (vero “Dumbo”?). Tuttavia è ben lontano dall’estetica di un regista che in passato è riuscito a regalare al mondo delle perle come “Batman”, “Edward mani di forbice” e “Big Fish”. E da una pellicola capace di ricevere una standing ovation alla Mostra del Cinema di Venezia, ci si aspetta molto di più.