“Candyman” del 2021, diretto da Nia DaCosta e prodotto e scritto da Jordan Peele (insieme a Win Rosenfeld e alla stessa DaCosta), si posiziona a metà strada tra il sequel e il reboot dell’omonimo cult del 1992 di Bernard Rose.
Dal racconto al film
Prima di parlare del nuovo film è necessario tornare un po’ indietro. Il film di Rose si basa su “The Forbidden”, racconto del 1986 scritto dal maestro Clive Barker, ma presenta un sostanziale cambio di ambientazione e di personaggi; innanzitutto, la Liverpool del racconto viene sostituita nel film dalla città di Chicago. Più in particolare, l’ambientazione principale della pellicola è il quartiere–alveare di Cabrini–Green.
La protagonista è sempre Helen (nel film interpretata da Virginia Madsen) che resta colpita dalla storia di Candyman dal momento in cui inizia uno studio sui graffiti e le leggende metropolitane per la sua tesi. Mentre il racconto di Barker è costruito come una ghoststory, in cui Candyman fisicamente compare pochissimo, il film ha l’impostazione di uno slasher, pur mantenendo il mistero attorno alla figura del villain per un bel po’, rendendo in tal modo la prima parte del film molto vicina all’atmosfera del racconto. Il quartiere di “The Forbidden”, Spector Street, non è connotato come “black”, pur essendo un’area periferica, degradata e abbandonata dalle istituzioni.
Questo è sicuramente il più grande cambiamento del film: i residenti del Cabrini–Green, con i quali Helen si rapporta per raccogliere informazioni, sono persone di colore così come lo stesso Candyman, interpretato da Tony Todd.
Bernard Rose introduce la questione razziale, contrapponendo la benestante e bianca Helen al mostro Candyman, il quale riceve inoltre una backstory inedita. La questione non è più semplicemente tra chi ha tutto e chi ha nulla, come nel racconto, siccome il film mette in tavola un’intersezionalità tra razza e classe, alla quale si unisce anche la questione di genere. Helen fa parte di un’élite e, all’inizio, sembra trattare con diffidenza gli abitanti del Cabrini–Green, tracciando una linea netta tra il “noi” e il “loro”. Linea destinata a farsi sempre più sfumata, perché in realtà Helen non è perfettamente integrata in quella realtà borghese, men che meno nel mondo accademico.
Essendo una donna, la strada per l’affermazione e il riconoscimento le si presenta più ardua. Anche Helen è, dunque, “altro”; Rose mette così in scena una lenta ma inevitabile sovrapposizione tra Helen e Candyman. I due finiscono per specchiarsi l’uno nell’altra – lo specchio è un simbolo importantissimo nel film – fino al tragico epilogo.
Chi è Candyman
Veniamo ora alla backstory di Candyman. Nel film veniamo a conoscenza del passato di questo spettro vendicativo. Candyman era il figlio di uno ex schiavo ed era un pittore. Innamoratosi di una giovane donna bianca che stava ritraendo, che ricambiava il suo amore, e scoperto dal padre di lei, Candyman – il quale, attenzione, in questo film non ha un nome – fu ucciso. Il padre della giovane organizzò un vero e proprio linciaggio. Il ragazzo sarà trascinato nel luogo in cui nel presente filmico sorgono le palazzine di Cabrini–Green, brutalmente picchiato e torturato fino alla morte.
I criminali assoldati per l’omicidio tagliarono la mano destra del giovane, la mano con cui dipingeva, e cosparsero il suo corpo di miele, affinché le api potessero pungerlo fino alla morte. Il film gioca con la possibilità che Helen sia la reincarnazione dell’amata di Candyman. Ma la cosa fondamentale è che nel finale la donna e la comunità di Cabrini–Green si trasformano in “depositari della memoria”. La storia di Candyman deve continuare ad essere tramandata, perché solo attraverso i “sussurri” e le “scritte sui muri” lui può continuare ad esistere. Candyman diventa metafora di migliaia e migliaia di uomini come lui, umiliati, vessati, linciati e, in tal modo, messi a tacere e cancellati dalla Storia. Bisogna ricordare, bisogna raccontare, affinché orrori del genere non si ripetano.
Il film del 2021
Nel 2021, cosa è cambiato? Abbiamo imparato qualcosa dalla vicenda di Candyman? Questa è la premessa da cui parte il sequel/reboot di Nia DaCosta. Questa volta il personaggio principale che entra in contatto con Candyman non è una donna borghese e bianca, ma un ragazzo di colore di nome Anthony (Yahya Abdul–Mateen II). Anche Anthony, come Candyman, è un pittore, e anche qui viene nuovamente affrontata la questione del razzismo introdotta dal film del 1992, ma il racconto viene modernizzato per adattarlo ai giorni nostri. Una cosa resta costante: non importa quanto studi, non importa quanto ti integri, non importa quanto tu sia bravo perché “a loro piace la tua arte ma non piacerai mai tu”.
È la storia che si ripete sempre uguale a se stessa. Ed è questa l’intuizione di maggiore successo del nuovo film, esplicitata attraverso la figura stessa del boogeyman, rielaborata in maniera intelligente. Il film di DaCosta introduce una buona componente di body horror, anche se pare alquanto fine a se stessa, messa lì più per l’effetto shock che per altro. A tal proposito, mi sento in dovere di avvertire i tripofobi come me… attenzione alle ultime scene! E anche le uccisioni sono visivamente d’impatto, con un killer che non si vede mai se non attraverso il suo riflesso e che ricorda perciò molto il recente “L’uomo invisibile”.
ORA PROCEDIAMO CON GLI SPOILER
Quando sono andata a vedere il film, credevo si trattasse di un reboot. In realtà, voglio spiegarvi perché questo film è sia un reboot che un sequel. Anthony è il bambino che viene salvato nella scena finale del film del 1992, permettendo così alla storia di riprendere da dove si era fermata. Niente di così eccezionale o inimmaginabile. Ma questo cambio di protagonista, un Anthony e non una Helen, è convincente perché va a rimuovere l’ambiguità avvertita nell’originale su chi fosse veramente la vittima, siccome mi è sempre risultata problematica la questione del “mostro”, uomo e nero, che perseguita la donna bianca in pericolo.
Rafforzava lo stereotipo del predatore nero, anche sessualmente “eccessivo”, o provocatoriamente faceva salire a galla il razzismo inconscio dello spettatore? Il personaggio di Anthony però sembra non decollare mai, così come viene lasciato sullo sfondo il Cabrini–Green, cuore palpitante del primo film, di cui ormai non resta più nulla. È la gentrificazione ormai avvenuta, quella riqualificazione urbana tanto attesa dai più e temuta da chi invece rischiava di essere cacciato e di scomparire. Pochi quelli rimasti, spinti ancora più ai margini, come il personaggio di William Burke (Colman Domingo).
Chi vive ora in quella zona, come Anthony e la sua compagna Brianna (Teyonah Parris), è invece immischiato in un nuovo sistema di sfruttamento più subdolo, mascherato da perbenismo spiccio.
Altro elemento che funziona benissimo è la già citata rielaborazione della figura di Candyman, che rende questo sequel anche un reboot. Il Candyman che vediamo per tutto il film non è quello di Tony Todd; e qui chapeu alla campagna di marketing che ha piazzato il nome dell’attore ovunque. Si tratta di un altro uomo di colore, accusato di un crimine che non ha commesso e per questo ucciso dalla polizia. Questa è la parte veramente horror del nuovo film, così reale e visibile quotidianamente che la scena finale sembra presa da un telegiornale.
I veri protagonisti sono loro, i candymen di tutti i giorni di cui non si sa nulla, vittime di un sistema brutale e violento. I loro nomi, nemmeno così spesso, sono tutto ciò che resta e che viene consegnato alla memoria collettiva. Chissà se è questo il motivo per cui Anthony non viene caratterizzato così tanto. Di lui resta il nome, la firma apposta sulle sue opere d’arte rese celebri e immortali dalla tragedia. La scena finale è il momento più doloroso a cui il film prepara e che lancia un messaggio fondamentale: se avete bisogno di guardare per credere, allora guardate. Una volta fatto ciò però, parlatene e non dimenticate: Candyman ha bisogno di voi.