I “Central Park Five” e l’aggressione ai danni di Trisha Meili. Il fatto di cronaca che ha ispirato la serie Netflix “When they see us”.
Ambientata nella New York di fine anni ’80, quella che vado a raccontarvi è una storia di demoni, violenza e crudeltà. Una di quelle storie che in molti, a ragion veduta, penserebbero troppo cruenta per essere vera.
Quella che vado a raccontarvi, è una storia che si svolge in una metropoli criminale. In cui i demoni riescono facilmente a soggiogare le menti di noi fragili esseri umani, portandoci a commettere atti indicibili, ad abusare del nostro potere e, cosa ancora peggiore, a ferire, sia fisicamente che moralmente, chiunque ci stia intorno.
E, come spesso accade nelle storie di demoni, a farne le spese sono gli innocenti.
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19 aprile 1989. Ore 21.00. Come ogni sera, la ventinovenne Trisha Meili, una giovane e brillante donna in carriera residente nell’Upper East Side di Manhattan, indossò una maglia termica, dei pantaloncini sportivi, un paio di costose scarpe da jogger e uscì dalla propria abitazione.
Dopo qualche esercizio di stretching per distendere i muscoli, un po’ di musica alle orecchie per darsi la giusta motivazione, Trisha cominciò a correre con destinazione Central Park.
Il suo scopo, come faceva quasi ogni sera per sei sere su sette a settimana, era quello di compiere lo stesso identico percorso in meno di un’ora, tornare a casa prima delle 22.00, e infine terminare la giornata con una doccia calda e rilassarsi. Ma purtroppo, quel 19 aprile del 1989, Trisha non riuscì completare il suo abitudinario allenamento.
Intanto, quella stessa sera, nel quartiere di Harlem, si riunì un gruppo di oltre trenta giovani tra afroamericani e ispanici il cui unico scopo era quello di marciare verso il parco più famoso del mondo. Una volta giunti a destinazione, i membri di quella comitiva di giovani scapestrati cominciarono ad aggredire, picchiare e derubare chiunque gli capitasse a tiro.
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Addentrandosi sempre più a sud, le imboscate si fecero sempre più violente. Ciclisti, turisti, persone a passeggio, vennero picchiate brutalmente. Alcune addirittura massacrate con oggetti metallici, prima di essere private dei loro beni.
Il tutto avvenne in maniera abbastanza rapida, più o meno tra le 21.00 e le 21.40, poiché, fortunatamente, l’arrivo in blocco delle forze dell’ordine, costrinse i giovani alla fuga.
20 aprile 1989. Ore 1.30 del mattino. Il corpo di Trisha Meili venne ritrovato tra i cespugli di Central Park. Il poliziotto che per primo vide la poveretta, descrisse quella macabra visione come una delle cose più agghiaccianti che avesse mai visto.
Il mostro, di cui ancora non si conosceva il nome, l’aveva colta di sorpresa assalendola alle spalle e, dopo averla immobilizzata, era riuscito a trascinarla lontano dalla strada. In un punto del parco isolato, in cui per chiunque sarebbe stato impossibile vedere cosa sarebbe successo in seguito.
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Quando l’agente giunse sul luogo erano ormai passate quattro ore dall’aggressione e Trisha era in ipotermia. Era nuda, imbavagliata e legata, e il suo corpo era ricoperto di sangue e fango ma, nonostante le numerose ferite, era ancora viva. Anche se la sua sopravvivenza era appesa ad filo molto molto sottile.
Rimase in coma per dodici giorni e, durante questo arco di tempo, il medico riuscì a stabilire l’entità dei traumi che aveva subito. Sul corpo aveva cinque profonde ferite da arma da taglio che le avevano causato una considerevole perdita di sangue e il cranio e il volto riportarono numerose fratture.
E, come se questo non fosse abbastanza, il mostro aveva anche abusato di lei. Nonostante le ferite esteriori e interiori, Trisha, grazie alla sua incredibile forza e ad un corpo determinato, non mollò e, miracolosamente, si riprese. Anche se la sua mente, traumatizzata da un simile shock, non ricordava assolutamente niente di quello che era successo in quella fredda sera di aprile.
Ma chi era stato ad aggredire la giovane jogger? Chi aveva compiuto un simile atto di violenza? O, per citare R.L. Stine “quale bestia poteva compiere un simile scempio?”.
La risposta ovviamente è nessuna. Perché per quanto un animale possa essere feroce e affamato, niente è paragonabile alla cattiveria dell’animo umano.
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Come viene difatti raccontato nella bellissima serie targata Netflix “When they see us”, la sera del 19 aprile, la polizia riuscì a fermare ben venti ragazzi. Tra questi, tre quattordicenni: Raymond Santana, Steven Lopez e Kevin Richardson.
Il giorno dopo invece alcuni agenti arrestarono Antron McCray e Yusef Salaam, che all’epoca avevano solo quindici anni. E Korey Wise, il quale era andato alla centrale di polizia solamente per accompagnare il suo amico Yusef. Una scelta che si rivelò fatale per il povero Korey.
Dopo un lungo interrogatorio, durato più di ventiquattro ore, Santana, Richardson, McCray, Salaam e Wise vennero accusati di aggressione, tentato omicidio, rapina e stupro. Steven Lopez invece, che per tutto il tempo si professò innocente, riuscì a patteggiare e ad ottenere una pena ridotta rispetto agli altri malcapitati ragazzi. Questi vennero ribattezzati dalla stampa come i “Central Park Five”. Erano tutti afroamericani e ispanici.
Ritenuti quindi colpevoli in tribunale, i ragazzini vennero condannati e scontarono tra i sei e sette anni di carcere minorile. Tutti tranne Korey Wise che, al momento dell’arresto, aveva sedici anni e quindi, per la legge americana, era maggiorenne.
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Il poveretto fu rinchiuso in una prigione assieme a detenuti violenti, assassini, rapinatori e aggressori. E per dodici lunghi anni, nonostante i vari trasferimenti da un penitenziario all’altro e le continue richieste per disperati tentativi di andare in isolamento, ed essere quindi lasciato in pace dai detenuti che lo avevano violato, picchiato per anni ed anni, Wise per dodici lunghi anni fu costretto a scontare una pena che non si meritava.
Così come gli altri quattro ragazzini, era innocente. E del tutto estraneo all’aggressione della jogger. Ma, se all’epoca dell’arresto non fosse stato maggiorenne e quindi costretto a scontare la condanna in carcere e non in una prigione minorile, probabilmente il colpevole non sarebbe mai venuto fuori.
Invero, durante la sua permanenza in prigione, Korey conobbe un altro detenuto, che rispondeva al nome di Matias Reyes. Un criminale che era stato condannato a vita per l’aggressione e l’abuso di quattro donne e l’omicidio di una di esse.
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Giunto in carcere però, come accade spesso nei film e nelle serie TV, incredibile ma vero, Reyes aveva trovato la fede in Dio. E, nel vano tentativo di redimersi e trovare il perdono del Signore, una volta venuto a conoscenza del motivo per cui Wise era stato incarcerato, decise di uscire allo scoperto e confessare tutto.
Convinto che ormai il caso di Trisha Meili fosse stato archiviato e che nessuno stesse scontando una sentenza per un crimine da lui commesso, Matias aveva taciuto il fatto compiuto. Ma nel 2002 decise di sua spontanea volontà di confessare al procuratore generale dello Stato di New York di essere lui e soltanto lui il carnefice che nella sera del 19 aprile 1989 aveva seguito, percosso, violentato e rapinato Trisha Meili.
Aveva agito da solo.
Raccontò per filo e per segno le modalità con cui si era svolta l’aggressione. E la sua versione combaciava perfettamente con le prove raccolte durante le indagini.
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Come se questo non fosse ancora abbastanza, il test del DNA evidenziò che era lo stesso che anni addietro era stato rinvenuto sul luogo del ritrovamento di Trisha.
Quattro mesi più tardi, su esplicita richiesta del Procuratore, le sentenze a carico dei “Central Park Five” vennero annullate. E i cinque ragazzi, ormai divenuti uomini, poterono finalmente ricominciare a vivere da cittadini liberi e con la fedina penale pulita.
Tuttavia, nonostante il lieto fine, la nostra storia non finisce qui.
E il demone a cui facevamo riferimento in apertura non è Reyes. Per quanto pericoloso e aggressivo, nella storia dei “Central Park Five”, non è solo lui l’antagonista.
I demoni di cui ci teniamo particolarmente a parlarvi, sono i poliziotti che condussero le indagini in quel freddo aprile del 1989.
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I poliziotti. Coloro che dovrebbero far rispettare la legge, proteggere noi umili cittadini e servire il paese e lo stato facendo fede alla Costituzione. Gli uomini e le donne che invece di proteggere e servire tentarono con tutte le loro forze di rovinare la vita a cinque innocenti ragazzini. E il tutto, per una questione di razza.
Secondo la legge americana, non è infatti possibile condurre un interrogatorio rivolto ad un minore a meno che non sia presente un genitore o un tutore legale. Oppure, in assenza di entrambi, un avvocato.
Ma siamo seri. Quale adolescente (soprattutto negli anni ’80) conosceva e portava con sé il numero di un avvocato? Ma quella sera, guidati da Linda Fairstein, capo dell’Unità Crimini Sessuali di New York, gli agenti dell’NYPD ignorarono la legge. E, dopo averli tenuti segregati per più di ventiquattro ore, senza cibo né acqua e senza la presenza di un genitore, costrinsero i cinque ragazzini a confessare un crimine che non avevano commesso.
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Il tutto allo scopo di chiudere alla svelta il caso dell’aggressione alla jogger di Central Park. E incastrare cinque scomodi ragazzi dalla pelle scura.
Malgrado tutte le incongruenze delle deposizioni, benché le testimonianze delle persone aggredite quella sera dal gruppo di giovani di cui abbiamo parlato all’inizio collocassero i “Central Park Five” lontano dalla zona dell’aggressione nell’orario in cui era avvenuta, e, soprattutto, nonostante il DNA dei ragazzini non combaciasse con quello rinvenuto sul corpo della vittima e sul luogo dove si era compiuto il fattaccio, Linda Fairstein e la sua squadra di agenti decisero di perseguire Raymond Santana, Kevin Richardson, Antron McCray, Yusef Salaam e Korey Wise.
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Di fronte ad una videocamera, costrinsero i ragazzi a dichiarare (in falso), di essere stati loro i colpevoli. Di essere stati loro a compiere l’assalto alla jogger. Con la promessa che tale confessione non avrebbe avuto ripercussioni su di loro. Senza la presenza di un genitore, di un tutore o di un avvocato suggerirono loro cosa dire. Alterarono le prove e, nei rapporti ufficiali, cambiarono il presunto orario in cui sarebbe avvenuto il massacro. Il tutto senza curarsi delle indicibili conseguenze che una simile condanna avrebbe avuto sull’esistenza dei cinque adolescenti.
Terrorizzati e, cosa ancora più importante, innocenti.
Neppure dopo la confessione di Reyes e le prove schiaccianti contro di lui, fornite dallo stesso Matias, la Fairstein ammise quello che aveva fatto. Sostenendo che, all’inizio delle indagini, aveva ipotizzato che gli aggressori potessero essere sei e non cinque.
E quindi, secondo la logica contorta di colei che avrebbe dovuto tutelare e non danneggiare i cinque ragazzini, Reyes sarebbe stato il membro del gruppetto che ancora non erano riusciti a trovare.
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Ma come ho detto, sebbene abbiano passato l’inferno e, a discapito della negligenza e dell’intolleranza razziale del capo della sezione Crimini Sessuali della polizia di New York, per i “Central Park Five” c’è stato un lieto fine.
Difatti, oltre ad avere ricevuto un sostanzioso risarcimento dalla città di New York, un milione di dollari per ogni anno passato ingiustamente dietro le sbarre, ognuno dei cinque ragazzini divenuti ormai adulti ha messo su famiglia.
Raymond Santana, Yusef Salaam e Antron McCray, pur prendendo strade diverse, si sono trasferiti in Georgia. Il primo ha fondato un’azienda di abbigliamento che, in onore della sua amata New York, ha deciso di chiamare Park Madison NYC.
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Antron vive ad Atlanta con sua moglie e i suoi sei figli, lavorando come operaio specializzato.
Yusef ha ben dieci figli ed è un autore pubblicato, un avvocato e un attivista sostenitore del cambiamento di politica nel sistema di giustizia penale.
Kevin Richardson invece abita in New Jersey con la sua consorte e due splendide figlie. Nel 2017 è stato insignito dalla Bronx Prep Academy di un diploma ad honorem. Attualmente lavora in un centro per persone anziane.
Korey infine, è l’unico dei “Central Park Five” che non ha lasciato la Grande Mela. Nel 2015 ha usato parte del risarcimento per fondare la Korey Wise Innocent Project. Un’associazione che offre consulenza pro-bono a chi, come lui, è stato ingiustamente condannato.