Una lettera d’amore al cinema e alla magia trasmessa dall’accogliente atmosfera delle sale cinematografiche.
“Non veniva più nessuno. Lei lo sa meglio di me: la crisi, la televisione, le cassette… oramai, il cinematografo è solo un sogno”.
Con i lucciconi agli occhi, un rassegnato Spaccafico comunica a Salvatore il triste destino dell’edificio che ha accolto per anni il Nuovo Cinema Paradiso. L’omonima pellicola di Giuseppe Tornatore si chiude così, con uno sguardo malinconico a un passato felice e colmo di speranze, benché connotato da semplicità e ristrettezze.
Nella storia del cinema, è raro trovare esempi così profondi di riflessione meta-cinematografica; si tratta di un film sui film, o meglio, su quello che il cinema – inteso principalmente nel senso analogico, come luogo – rappresenta per ogni appassionato.
Il piccolo Totò, incarnato negli occhi ridenti ed espressivi di un giovanissimo Salvatore Cascio, vuole avere sempre le mani in pasta: ne combina di tutti i colori, con quelle infiammabili, pericolosissime pellicole. A nulla serviranno i sonori scapaccioni della madre e la burbera ritrosia del proiezionista, “zio” Alfredo; la luce del suo sorriso sognante, mentre si gode uno spettacolo, lo ripaga, puntualmente, da tutti i tentativi di farlo desistere dall’assecondare la sua vocazione.
La lettera d’amore vergata da Tornatore, è intrisa di una melanconia esasperata – a tratti, forse persino stucchevole -, ma sincera.
Il regista non si auto-incensa, anzi, celebra l’invenzione cinematografica attraverso un’opera che trasuda italianità, nella sua sospirosa commozione, nel suo inevitabile farsi “fottere dalla nostalgia”.
A dispetto di una società “usa e getta”, che ci vuole effimeri e distaccati rispetto ai luoghi del cuore, ritorniamo, nonostante tutto, a viverli, con lo sguardo emozionato del nuovo Salvatore, ormai affermato regista, ma svuotato dei suoi entusiasmi infantili e adolescenziali.
Ne è passata di acqua sotto i ponti, da quei primi esperimenti che hanno creato una sala e un pubblico con cui riempirla. Senza scadere nel didascalismo, mi viene da pensare a “L’arrivo di un treno nella stazione di La Ciotat”, dei famigerati fratelli Lumière; leggenda vuole che alcuni spettatori avessero abbandonato la proiezione trafelati, temendo che il treno potesse davvero investirli. E il cielo voglia che nessuno abbia prestato attenzione a me, la prima volta in cui vidi un film in 3D: nel lontano 2014, schivavo colpi che non avrei comunque mai ricevuto, mentre i personaggi di “Captain America: The Winter Soldier” se le davano di santa ragione.
Oggi, esattamente come ieri, a prescindere dal genere verso il quale ci orientiamo, viviamo le medesime, ancestrali emozioni.
E non c’è scusa che tenga. Il fascino della sala è sempre ineguagliabile e irraggiungibile, per quanto grande possa essere la nostra TV e confortevole il nostro divano.
L’intervento di molteplici fattori, però, ha fatto sì che, spesso, attualmente si concepisca la fruizione di un film al cinema come un’attività stantia e snob, per inguaribili radical chic. La complicata situazione sanitaria che stiamo vivendo, complice l’infingarda ribalta dello streaming, non è che un ulteriore tassello che va a completare un mosaico tutt’altro che roseo. Niente più file in cassa, niente più attese, niente più prenotazioni per film dal successo già decretato che, inevitabilmente, portano al sold-out in breve tempo.
Ma a quale prezzo? Comodamente stravaccati sulla nostra postazione preferita, ormai trasformati in tanti piccoli Sheldon Cooper, che gridano stizziti “sei sul mio posto!”, ci siamo arresi a una pericolosa comfort zone, che di magico non ha nulla.
La politica del “tutto e subito”, con il suo automatismo spersonalizzante, ci ha reso grigi come i capelli del Salvatore maturo, che tanto ha corso, per non arrivare da nessuna parte.
Ma se, razionalmente, l’uomo era consapevole di aver chiuso fuori tanta parte della sua vita – quella più ricca e piena, per giunta –, la memoria del cuore, inossidabile, ha avuto il sopravvento davanti ai ritagli di baci rubati, quelli che il pudico padre Adelfio aveva censurato.
Ed è a dispetto del (seppure sacrosanto e inevitabile) progresso, che tutti dovremmo fermarci a ritrovare la bellezza dimenticata, ma mai scordata, di quel luogo buio, accogliente e, perché no, anche un po’ obsoleto, che tanti sussulti ha provocato e provocherà.