Descrivere questa pellicola non è affatto facile. Conosco e amo tantissimo Yorgos Lanthimos, ho adorato i suoi “precedenti” lungometraggi (“Dogtooth” è stato distribuito undici anni dopo che è stato girato). E se la curiosità mi ha portato a vederlo, l’incredulità mi ha portato ad avere gli occhi sbarrati durante tutta la proiezione, incapace di avere reazioni dinnanzi ad una trama tanto illogica, aberrante e paradossale da risultare assolutamente credibile.
Immaginarsi infatti che due genitori possano segregare in casa i propri figli facendogli credere che oltre quelle mura non ci sia nulla oltre al loro giardino è davvero inconcepibile. Si rimane attoniti e increduli. Man mano che la trama scorre ci troviamo dinnanzi ai reali sforzi che la coppia di genitori fa per eludere i propri figli. Prendiamo coscienza che il tutto può essere fortemente reale, che quella situazione grottesca, paradossale e ai limiti del ridicolo è invece gestita con grande razionalità. Ed è proprio in quel preciso istante che subentra un profondo stato di angoscia.
Ciò che all’inizio appare senza senso, acquista significato. Difatti ci riconduce a quelle folli situazioni che leggiamo sui giornali e che sentiamo in tv, alle quali stentiamo a credere. Quelle notizie che ti fanno guardare il vicino di casa, il collega di lavoro con sospetto. La follia è dietro l’angolo, nascosta da ingannevoli apparenze e da un’ostentata normalità.
Apparentemente normali sono infatti i coniugi interpretati da Christos Stergioglou e Michelle Valley, rispettivamente impiegato e casalinga, che con freddezza e disciplina riescono a far credere ai tre figli che gli aerei sono solo giocattoli, che i gatti sono creature malvagie, che ogni creatura vivente viene dal ventre della loro madre. Ecco perché non viene voglia di ridere quando i ragazzi vengono addestrati ad abbaiare, quando dicono frasi senza senso, in quanto i genitori per isolarli dalla società li hanno istruiti ingannevolmente, scambiando il senso delle parole (il sale è rinominato telefono, gli zombie sono fiori) niente è comico in tutto ciò, bensì inquietante. Una storia, che potrebbe risultare ridicola, non lo è affatto, come se un paradosso d’improvviso diventasse perfettamente plausibile.
Tutto procede secondo i piani fino a che l’unico elemento esterno a quel sistema, la ragazza che il padre pagava per soddisfare i bisogni sessuali dell’unico figlio maschio, destabilizza la situazione in un crescendo di vicende che porterà il film ad assumere toni fortemente drammatici fino al tragico epilogo.
In conclusione, al regista va il grande merito di coinvolgere e bloccare lo spettatore in quella logica perversa il cui risultato è una sensazione di totale claustrofobia.
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