“Il signor Carl Laemmle, ritiene che non sia opportuno presentare questo film senza due parole di avvertimento. Stiamo per raccontarvi la storia di Frankenstein, un eminente scienziato che cercò di creare un uomo a sua immagine e somiglianza, senza temere il giudizio divino. E’ una delle storie più strane che siano mai state narrate. Tratta dei due grandi misteri della creazione: la vita e la morte…” (Cit. “Frankenstein” del 1931)
Così il produttore cinematografico Carl Laemmle volle introdurre gli spettatori alla visione di “Frankenstein” nel 1931, un’opera che a quel tempo poteva terrorizzare a tal punto da sconvolgere gli spettatori.
Il regista James Whale fece conoscere al grande il pubblico la storia di Frankenstein attraverso un ciclo di film, che ebbe inizio nel 1931.
Prodotti dalla Universal, i film videro come protagonista Boris Karloff (che all’epoca aveva all’attivo ben 81 pellicole). La serie di pellicole su “Frankenstein” lo consacrò come icona Horror per il resto della vita. Ma la storia originale fu il frutto di una scrittrice dal talento precoce, Mary Wollstonecraft Shelley, pubblicato anonimo nella prima edizione con il titolo di “Frankenstein o il moderno Prometeo”. L’idea di Frankenstein nacque da un gioco di società a cui Mary partecipò, insieme a suo marito Percy e a Lord Byron, durante una piovosa vacanza in Svizzera nell’estate del 1816.
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Il libro narra le vicende di Victor Frankenstein, uno studente di medicina all’Università di Ingolstadt, in Germania. Rimasto traumatizzato dalla morte della madre, dovuta ad un’epidemia di scarlattina, il giovane Frankenstein comincerà in segreto a svolgere degli esperimenti con lo scopo di creare un essere umano dotato di una grande intelligenza e di una salute perfetta. Una volta acquisite le conoscenze mediche adeguate, il dottor Frankenstein riuscirà a ridare la vita ad un corpo ormai esanime, creando così un essere deforme e sgraziato nei movimenti; ma allo stesso tempo intelligente e dotato di una smisurata forza fisica. La sua creazione però gli si rivolterà contro, sconvolgendo tutta la sua esistenza e seminando terrore.
Nel corso degli anni l’opera creata da Mary Shelley venne più volte rappresentata a teatro e al cinema, e subì numerosi cambiamenti.
La prima trasposizione cinematografica risale al 1910. Charles Ogle interpretò il Mostro. Per la prima volta fu rappresentato con la fronte piatta, tratto distintivo adottato anche per le versioni successive. Questo cortometraggio, della durata di appena 13 minuti, fu di ispirazione per la pellicola prodotta nel 1931.
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Mel Brooks andò a vederlo al cinema quando aveva appena cinque anni e ne rimase completamente terrorizzato. Aveva una paura tremenda che il mostro entrasse nella sua cameretta e lo divorasse. E’ strano pensare che circa quarant’anni dopo, Brooks avrebbe girato una pellicola comica i cui protagonisti sarebbero stati proprio il dottor Frankenstein e il Mostro che tanto lo aveva spaventato quando era bambino. Tutt’ora “Frankenstein Junior” è considerato uno dei 100 film più belli della storia del cinema, nonché (da lui stesso considerato) il lavoro migliore del regista.
“COME LO FECI”… di Victor Frankenstein.
Nel bel mezzo della lavorazione di “Mezzogiorno e mezzo di fuoco”, Gene Wilder era solito scribacchiare qualcosa sul block notes giallo che portava sempre con sé, sulla cui copertina scrisse “Young Frankenstein”. L’attore stava difatti scrivendo una storia, immaginando di essere il pronipote di Beaufort Von Frankenstein. Come Mel Brooks, Gene Wilder da bambino era stato terrorizzato dalla visione dei film riguardanti il Mostro. In particolare “Frankenstein” e “La moglie di Frankenstein” del 1935.
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Wilder era sicuro di aver trovato terreno fertile per un film, per una parodia. Desiderava però che avesse un finale del tutto diverso dalla versione originale. All’epoca Wilder aveva assunto da poco un nuovo agente, Mike Medavoy. Pochi mesi dopo l’inizio delle riprese di “Mezzogiorno e mezzo di fuoco”, Medavoy contattò l’attore chiedendogli cosa ne pensasse di fare un film con Marty Feldman e Peter Boyle, poiché era l’agente di tutti e tre. Wilder colse al volo l’occasione, rispondendo che sarebbe stata un’idea stupenda e che aveva a disposizione la storia perfetta. Così gli inviò le prime pagine di “Frankenstein Junior”.
Gene Wilder volle Mel Brooks. Propose all’amico di diventare il suo coautore. L’idea era che Gene avrebbe scritto il copione e Mel avrebbe supervisionato il progetto.
Tutto filò liscio. Ogni sera si incontravano nell’hotel dove alloggiava Wilder. L’obiettivo era quello di raccontare una storia comica che però richiamasse le atmosfere dei film di Whale.
I primi film dell’orrore prodotti in Europa negli anni ’20, erano fortemente influenzati dalle tecniche del teatro espressionista. Tale approccio era usato principalmente nel cinema espressionista tedesco, grazie ad un abile gioco di luci e ombre. I registi hollywoodiani, abituati ad usare una luce piatta che rendeva tutto luminoso, rimasero affascinati da una tale messa in scena tetra e ipnotica (“Nosferatu” 1922). Iniziarono così ad applicare il metodo tedesco anche ai loro film dell’orrore. Whale nei suoi lavori, riuscì a rendere ogni cosa profonda, scura e cupa e Mel Brooks voleva ricreare quell’atmosfera, ma voleva anche che i volti degli attori fossero chiari per cogliere a pieno le loro espressioni.
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Erano gli anni ’70 e nessuno faceva più un film in bianco e nero da almeno sei anni, quindi la sfida era quella di ricreare le atmosfere dei film di Whale usando ottiche, pellicole e luci differenti da quelle in uso nel 1931. Gene Wilder e Mel Brooks volevano che “Frankenstein Junior” fosse una versione parodistica degli originali. In qualche modo volevano qualcosa che non ci fosse nei film di Whale.
Vista la sua grande esperienza nell’ambito della comicità, Brooks sapeva che il comico doveva essere luminoso; ma allo stesso tempo voleva che le atmosfere fossero tetre.
Per accontentare queste sue esigenze, il direttore della fotografia Gerald Hirschfeld, fece in modo che i campi lunghi fossero scuri per dare l’idea di un’ambientazione lugubre. I primi piani, che sostenevano le battute, vennero resi chiari. Così facendo, i tempi comici degli attori risultano messi in risalto. Hirschfeld, dopo un lungo studio, riuscì finalmente a rendere l’ambiente tetro della Transilvania a contrasto con la componente comica.
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Durante la lavorazione di “Frankenstein Junior”, la produzione fece una grande scoperta. Kenneth Strickfaden, l’artista degli effetti speciali che aveva disegnato gli elettrificati e scoppiettanti macchinari di laboratorio dei film di James Whale, viveva a Santa Monica, e nel suo garage aveva conservato gran parte degli effetti scenici. Così i macchinari del dottor Frankenstein (Colin Clive), vennero portati sul set di “Frankenstein Junior”. Alcuni arredi scenici necessitavano di manutenzione ma Strickfaden li rimise in funzione.
La produzione usò diversi effetti speciali per la realizzazione di “Frankenstein Junior”.
Essendo gli anni ’70, e non avendo a disposizione gli strumenti necessari e la computer grafica moderna, i realizzatori dovettero inventarsi degli espedienti per creare gli effetti desiderati. Le candele tenute in mano dai personaggi, per esempio, furono camuffate da dei tubi bianchi con in cima delle lampadine da 100 watt, alimentate da un filo elettrico che passava sia attraverso i pantaloni sia le maniche degli attori. Mentre per ottenere la nebbiolina bassa nelle tetre strade della Transilvania, usarono tonnellate di ghiaccio secco.
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Per la scena in cui Peter Boyle fa volare la bambina (Anne Beesley) direttamente nel suo lettino, Mel Brooks e la sua troupe usarono un particolare stratagemma. Al vestito della giovane attrice venne applicata una corda dipinta in modo che risultasse invisibile e per camuffare il tutto, in fase di montaggio utilizzarono alcune inquadrature della faccia del Mostro. Per poi inquadrare nuovamente la bambina nel momento in cui cade sul suo letto.
Per rendere il tutto possibile, il trucco fu essenziale. La riuscita degli effetti speciali infatti, dipese dalla collaborazione tra il makeup artist Bill Tuttle e il direttore della fotografia Gerald Hirschfeld. Tuttle aveva già all’attivo oltre 300 film. Per “Frankenstein Junior”, Tuttle realizzò sia la barba di Gene Hackman, sia l’enorme mento di Frau Blucher oltre che i resti mummificati di Beaufort Frankenstein.
Tuttle e Hirschfeld collaborarono spesso insieme, così da rendere veritiero il connubio tra trucco e bianco e nero.
La faccia del Mostro doveva risultare più chiara rispetto a quella degli altri personaggi. Per ottenere un tale risultato venne applicato un cerone verde sul viso di Peter Boyle, che dava al Mostro un aspetto cadaverico con l’uso del bianco e nero. L’applicazione del cerone creava però un effetto negativo. La pelle di Peter Boyle risultava troppo luminosa. Dovettero quindi usare delle luci meno intense sull’attore, spesso puntandole dal soffitto. Al posto dei bulloni, tratto caratteristico del Mostro di Boris Karloff, venne applicata una cerniera (idea di Mel Brooks), per non avere problemi di diritti d’autore con il film del 1931. Grazie al suo gigantesco fisico, Peter Boyle era perfetto per la parte del Mostro. Le scarpe con le zeppe aggiunsero 15 centimetri al suo metro e ottantotto, e l’imbottitura nei vestiti gli diede ancora più peso. Doveva diventare veramente mostruoso.
Per prepararsi al ruolo, gli fu d’ispirazione la gestualità di Karloff, estremamente teatrale e malinconica.
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Il suo mostro doveva essere così. Grande, orrendo, da far orrore, ma anche in grado di trasmettere una dolce malinconia. In fondo era un essere solo al mondo. All’epoca Karloff venne scelto per il ruolo del Mostro perché Whale rimase affascinato dai tratti marcati del suo viso. Pur non sapendo di che ruolo si trattasse, Karloff colse l’occasione al volo. Ma ci rimase piuttosto male quando gli fu comunicato che avrebbe ricoperto il ruolo del Mostro. Fortunatamente fu abbastanza saggio da accettare il ruolo. Con l’aiuto di Jack Pierce e del suo makeup divenne un’icona nella storia del cinema.
Come già scritto, Gene Wilder, per la realizzazione di “Frankestein Junior” si ispirò anche a “La moglie di Frankenstein”, interpretata nel film del 1935 da Elsa Lanchester. Per la parte di Elizabeth non pensò immediatamente a Madeline Kahn (con la quale aveva già lavorato in “Mezzogiorno e mezzo di fuoco”). Inizialmente le offrì la parte di Inga (andata poi a Teri Garr), ma fu Madeline che rifiutò il ruolo perché voleva a tutti i costi la parte della fidanzata di Frankenstein. Wilder credeva che fosse impazzita. Era convinto che la parte dell’assistente fosse più interessante, almeno fino a quando Madeline Kahn non lasciò la sua impronta sul personaggio di Elizabeth.
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Fu dell’attrice l’idea di far cantare ad Elizabeth la canzone “Ah! Sweet mystery of life” nella scena dell’amplesso con il Mostro.
Ma la brillante idea che Elizabeth cominciasse a cantare nel momento in cui sembra che il Mostro approfitti di lei, venne a Mel Brooks. La situazione venne enfatizzata, perché la donna è incredibilmente e terribilmente attratta dal Mostro. Il look da donna casta a desiderosa e vogliosa della Creatura, venne ripreso dall’icona di mostro femmina interpretato da Elsa Lanchester ne “La Moglie di Frankenstein”. I truccatori si ispirarono alla regina egiziana Nefertiti e realizzarono un trucco diverso da quello di Karloff. Crearono una struttura rigida che sosteneva l’acconciatura, e per donarle carattere le furono aggiunte strisce bianche ai lati. L’immagine della “Moglie di Frankenstein”, verrà quindi riproposta come icona in “Frankenstein Junior” grazie a Madeline Kahn.
Mel Brooks era un perfezionista, faceva ripetere le scene più e più volte anche se erano venute bene, tranne alcune rare eccezioni in cui apprezzava l’improvvisazione degli attori. La scena dell’arrivo di Elizabeth al castello venne quasi del tutto improvvisata. Originariamente era povera di dialoghi e per aggiungere un po’ più di movimento, Mel suggeri a Marty Feldman di azzannare la pelliccia che Elizabeth portava al collo. Tuttavia, anche se improvvisata, ci vollero otto o nove riprese prima che Brooks ne fosse soddisfatto, perché ad ogni morso che Marty Feldman dava alla pelliccia gliene restava un po’ in bocca. Era praticamente impossibile non ridere.
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Quello di “Frankenstein Junior” era un set folle e pieno di risate, che cambiò la vita a tutti loro.
Mel Brooks, per esempio, stava girando il quarto film della sua carriera, Gene Wilder aveva da poco prestato il volto a Willy Wonka e per Marty Feldman si trattava del primo film importante.
Il film è praticamente perfetto. Durante la sequenza iniziale, quando Frederick Frankenstein tiene la lezione all’università il suo ragionamento scientifico sembra essere plausibile, sembra che sappia davvero di cosa stia parlando. Per tutta la durata del film, Gene Wilder stravolse ogni regola comica, un attimo prima urlava a squarciagola con gli occhi spiritati e un secondo dopo riusciva a far ridere lo spettatore con uno sguardo, un sorriso o un gesto appena percettibile.
E Marty Feldman?
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Nella scena del balletto, “Puttin on the ritz”, Frankenstein vuole mostrare a tutti i risultati del suo lavoro, facendo vedere quanto sia riuscito a civilizzare il Mostro con lo scopo di farlo accettare dal resto della comunità. Wilder volle fermamente girare quella scena, perché pensava che al pubblico sarebbe piaciuto vedere il dottore e il mostro esibirsi. Sarebbe stato disposto ad andare contro a Mel Brooks stesso pur di girare la sequenza di “Puttin on the ritz”.
“Tutta la gente ha avuto per me sempre odio e disprezzo. Guardavano il mio viso e il mio corpo e correvano via inorriditi. Nella mia solitudine avevo deciso che se non riuscivo a suscitare l’amore che profondamente agognavo, avrei suscitato paura. Io vivo perché questo povero, caro genio squinternato mi ha dato la vita. Soltanto lui mi considerava come… qualcosa di bello e poi quando gli sarebbe stato facile rimanere al sicuro egli ha usato il suo corpo come fosse una cavia per darmi un cervello normale. Un modo più sofisticato e civile di esprimermi” (Cit. Peter Boyle in “Frankenstein Junior” del 1974)
Gene Wilder era fermamente convinto che il finale di “Frankenstein Junior” dovesse essere del tutto differente da quello del film del 1931.
Pur ispirandosi alle prime versioni cinematografiche di “Frankenstein”, Wilder voleva cogliere il lato malinconico e sensibile della Creatura. La differenza sostanziale è che nel film di Whale, e nell’opera di Mary Shelley, la Creatura è emarginata, trattata come un mostro. La classica situazione in cui chi il diverso è messo da parte. Nel finale de “La Moglie di Frankenstein”, la Creatura trova una redenzione sacrificando se stesso per salvare il dottor Frankenstein e sua moglie. In “Frankenstein Junior” invece il dottore si prende cura della sua Creatura, trattandola come un uomo e non come un mostro. Così Frederick si “sacrificherà” condividendo il proprio cervello sapiente con la sua Creatura, donandogli l’intelligenza necessaria per vivere e per essere accettato.