Un’analisi approfondita della canzone “Giulio Cesare” di Antonello Venditti, un testo che racconta della Giovane Italia, dei Mondiali e degli anni del Liceo.
Sono giorni di nuovi inizi, quelli di settembre. E settembre significa solo una cosa: l’inizio della scuola. E da chi potevo iniziare, se non dal cantautore che ha dedicato alcuni dei suoi brani più celebri al mondo della scuola? Sto parlando di Antonello Venditti, chiaramente.
Molti suoi brani guardano il mondo della scuola dal di dentro, con lo sguardo di uno studente qualunque, in modo quasi autobiografico. Altri, invece, accennano a situazioni riguardanti la quotidianità scolastica, mi vengono in mente, ad esempio, quel “Sara, sono le sette devi andare a scuola”, o Cinzia che si scriveva i testi delle canzoni sul diario “proprio nell’ora di religione/ quando tutto il mondo sembra buono anche il professore”.
Venditti, cantautore della scuola romana in tutti i sensi. Perché i suoi primi passi li ha mossi proprio in un liceo della mia città, Roma, il Giulio Cesare di Corso Trieste, che come lui stesso dichiara, «questa scuola è casa mia, è stata prigionia e liberazione».
“Giulio Cesare” è una di quelle canzoni che non si possono non amare.
Il testo ci fa tornare tutti liceali e ci riporta con la testa tra i banchi di scuola. È una canzone dei ricordi, in sostanza. Una canzone poetica, ma solo all’apparenza, perché, come per la maggior parte delle canzoni di Venditti, porta con sé moltissime citazioni legate alla politica, alla società e al costume.
Solo nella prima strofa, si accenna al boom demografico, alle classi numerose e alla consuetudine, negli anni ’60 (siamo nel ’66, proprio a ridosso dell’inizio delle rivolte studentesche del ’68 che porteranno alla rivoluzione dei costumi; nonché anno dei Mondiali che videro come star il calciatore Pelè), dei ragazzi vestiti formali in giacca e cravatta e le ragazze col grembiule nero.
Questo insieme di riferimenti è semplicemente l’inizio della critica alla cultura cattolica vigente del tempo portata avanti dalla DC; così come la strofa sarcastica dove V. fa riferimento ai giovani dell’ MSI (Movimento Sociale Italiano) che predicavano i loro ideali all’insegna dell’eia eia alalà dannunziano. Venditti era un sognatore. Cantando Viva la libertà, si metteva utopisticamente a capo di quella «coscienza popolare» dei giovani che due anni più tardi avrebbero sconvolto il presente e l’Italia all’insegna dei diritti e dell’uguaglianza.
Leggi – Woodstock: musica è libertà – curiosità sui tre giorni che hanno definito una generazione
Spostiamoci più avanti nella canzone, o cinque mondiali più avanti di quelli del ’66.
La III E vendittiana non c’è più. Ce n’è una nuova che si matura al tempo dei Mondiali di Maradona, quelli dell’86 (anno in cui è uscita anche la canzone). Venditti qui cita un certo Paolo Rossi, «un ragazzo come noi», che come tutti sappiamo è stato uno dei più famosi e talentuosi calciatori italiani del secolo scorso, che fece vincere la nostra Nazionale Azzurra ai mondiali dell’82, ammirato e apprezzato dai più proprio per il suo aspetto, lontano dall’idea contemporanea di calciatore, appunto un ragazzo come tanti, simili ai tanti ragazzi che percorrono i corridoi delle scuole. Il Paolo Rossi in questione, il ragazzo come lui, non è il calciatore, però.
Era davvero un ragazzo come tanti. Uno studente universitario di Lettere, per la precisione, che aborriva ogni fascismo e ogni dittatura. Venne ucciso nel ’66 (proprio l’anno della III E di Venditti; che ricordiamo, secondo la vecchia denominazione del liceo classico, terzo sta per quinto anno) da un gruppo di studenti di Primula Goliardica (gruppo politico universitario di destra), sulla scalinata del Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università La Sapienza, mentre distribuiva dei volantini di propaganda.
Leggi – Abbey Road, Revolver e Cheap Thrills – alcune curiosità nascoste dietro le copertine di album leggendari
La canzone non può che concludersi con un passo indietro che allo stesso tempo è anche un salto in avanti, alla maturità; evento a cui dedicherà “Notte prima degli esami”, pezzo simbolo della fine del quinto anno di superiori di ogni generazione; al sogno dell’interrail in quell’Europa lontana e con il sentimento della speranza e uno sprone a quel ragazzo non elegante a fare meglio del ragazzo dell’86.
Le canzoni di Venditti hanno un grande pregio rispetto a quelle di altri cantanti e cantautori, narrano storie autentiche con un linguaggio semplice ma allo stesso tempo ricercato e costruito.
Infatti la particolarità di questa canzone, da un punto di vista linguistico, è la presenza di moltissime figure retoriche; alcune più evidenti, ad esempio la similitudine introdotta dal “come” nel ritornello («sta crescendo come il vento questa vita mia»), o la metafora «e mio padre una montagna troppo alta da scalare»; altre più sottili, forse inconsapevoli.
Leggi – Discoteche Abbandonate: Il malinconico e riflessivo nuovo singolo e videoclip di Max Pezzali
Se ci soffermiamo ad una lettura più approfondita del testo, possiamo notare la presenza di quello che Algirdas Julien Greimas definì, nel 1979, quadrato semiotico; un particolare modo di organizzare la struttura semantica di un testo sulla base di coppie oppositive, ad esempio “caldo-freddo, chiaro-scuro”.
Nel caso della nostra canzone le coppie, organizzate appunto secondo una struttura quadrangolare e chiasmatica, riguardano indicazioni di tipo temporale; quello spostamento di cui parlavo in precedenza che vede la narrazione su un doppio piano temporale, quello del passato presente/ passato passato, che vede la classe III E di Venditti prima nel ’66, che appunto è alla fine del percorso, e poi nell’86, quando non c’è più se non nei ricordi, e quello del presente immanente e trascendente, dove troviamo da un lato la scuola Giulio Cesare, nel quale sono solo i suoi studenti a succedersi nel tempo, non l’edificio, dall’altro la voglia di cantare che, come il Giulio Cesare, rimane e rimarrà sempre viva in Venditti.