Attraverso i suoi testi, “Il colore viola” è un inno alla speranza e a reagire alla violenza e alla sofferenza.
Iniziamo con lo specificare che “Il colore viola”, il film del 2023 è un adattamento cinematografico del musical di Broadway “The Color Purple”, impreziosito anche dalla splendida colonna sonora a cura di Brenda Russell, Allee Willis e Stephen Bray. Ma a sua volta, il film è tratto anche dall’omonimo romanzo di Alice Walker, cui nel 1985 era già stato realizzato lo splendido film diretto da Stephen Spielberg e interpretato dall’indimenticabile Whoopy Goldberg, che, a rigor di cronaca, nell’adattamento di cui sto per parlarvi ha fatto anche una piccola apparizione.
Fatte le dovute premesse (e nel ricordarvi di leggere la recensione del film che trovate proprio qui), voglio parlarvi di questa splendida colonna sonora.
Ed è proprio attraverso i testi di queste canzoni che “Il colore viola” vive, si agita, si ribella, si nutre, sopravvive ad un mondo privo di moralità. E racconta la storia di un’America che, nei primi anni del ‘900, ancora intrisa nel pensiero privo di logica e nei fatti, voleva la donna sottomessa all’uomo. O meglio, alla furia dell’uomo. Ed era proprio la supremazia del patriarcato che dominava sul paradosso che il paese stava vivendo. Una cultura in via di sviluppo da un lato e un profondo pensiero conservatore dall’altro. La donna era sottomessa all’uomo, che fosse il padre o il marito. Non aveva scelta. Ed è proprio di questa scelta che il film racconta.
Una grande, immensa prova di coraggio. Un coraggio che alla figura femminile, fin dalla tenera età non era permesso avere, né a causa degli abusi subiti dentro e fuori le mura domestiche, né per il razzismo che dilagava potente, specialmente negli Stati del sud.
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Quindi nel film “Il colore viola” la musica è narrazione. Funge da chiarimento, ribellione, da soluzione e assoluzione e ad onorare i propri peccati.
Un po’ di Blues, un po’ di Jazz e canti gospel. Generi nati dalla cultura afroamericana si intrecciano per dare vita alla trascinante colonna sonora del film, fatta di musica e parole che unite fanno del film uno tra i musical più trascinanti degli ultimi anni (e forse anche sottovalutato, cinematograficamente).
Ad ogni modo, ad aprire il sipario con un piccolo messaggio di speranza ci pensa Halle Bailey, grazie alle note di “Huckleberry Pie”, che nel film interpreta Nettie Harris, la sorella di Celie, protagonista del film. Le due sorelle, sopra ad un albero giocano e, tenendosi la mano, si rassicurano cantando all’unisono “Gon’ be alright”. Come scritto prima, siamo nel sud degli Stati Uniti, in Georgia nel 1909. E poi è subito Gospel, grazie alla trascinante voce di Tamela Mann che, aiutata da un coro di belle signore vestite appositamente per la messa della domenica, portano le braccia verso il cielo per far sì che il Signore e Dio li ascolti con gioia. La canzone è “Mysterious Ways” ed è cantata anche da David Alan Grier che nel film interpreta il reverendo Samuel Avery.
Il tutto conduce verso la chiesa perché “le vie del Signore sono misteriose e danno speranza”.
Una speranza che Celie nutre giorno dopo giorno perché, appena partorito e lei stessa in tenera età, i suoi figli le sono stati strappati dalle grinfie di un uomo malvagio, lo stesso uomo che ha osato privarla di quell’innocenza che ogni ragazza dovrebbe preservare solo per chi ama. Quell’uomo che altri non è che l’uomo che chiama padre e che, invece, dovrebbe proteggerla dal male.
Così Celine (interpretata dalla talentuosa Phylicia Pearl Mpasi) canta, avvolta dalla disperazione perché le è stato tolto dalle grinfie dell’uomo cattivo la possibilità che ogni donna vorrebbe avere, ovvero crescere e conoscere i propri figli.“She Be Mine” è quindi un blues, un grido di disperazione, un grido di dolore di una mamma a cui non è consentito crescere i suoi figli.
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“La vita non spezzerà mai la tua anima”, sono le parole che Nettie canta e ripete con energia alla sorella Celie al solo scopo di alimentare speranza nell’animo della ragazza, piegata all’ennesimo uomo, il Mister (interpretato da Colman Domingo), che l’ha presa in moglie al solo scopo di avere una sguattera in casa, e che preferisce sottometterla in più di un’occasione, anche tra le lenzuola, invece che essere gentile con lei. Nettie e Celie sono sorelle, legate non solo da un legame di sangue, ma da un’amicizia, profonda. Un sentimento che le vedrà legate per l’eternità. Per questo Nettie, riesce, come solo lei è in grado di fare, a sollevare l’umore di Celie e a riportare il sorriso, anche se brevemente, negli occhi dell’adorata sorella.
Il tempo passa inesorabile. Nettie è scappata dalle grinfie di Mister e Celie, rimasta sola al mondo, credendola morta, si abbandona allo sconforto. Sarà ancora viva? E se ancora viva, perché non le scrive? Siamo nel 1917 e Sofia (Danielle Brooks) e Harpo (Corey Hawkins), figlio del Mister entrano in scena.
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Sofia ha un carattere insolito per una donna dell’epoca: è forte, spavalda e no, nessun uomo al mondo può osare mancarle di rispetto. Giustamente. Nemmeno se questo viene a mancare proprio dall’uomo che ama. Arrabbiata per questa mancanza di rispetto, con immensa delusione scopre che Celie, invidiosa della tempra morale e dell’immensa forza di Sofia nell’affrontare la vita, una vita fatta comunque di sacrifici e di lotte continue per riuscire a tenere lontana la mano furiosa dell’uomo e conservare così quella dignità che le è stata donata appena nata, ha consigliato ad Harpo di alzare la mano su di lei nel tentativo che si piegasse al suo volere di marito. Sofia tra rabbia e delusione, ma piena di principi e moralità, manifesta la sua ira a Celie.
Quindi, con una voce graffiante e colma di rabbia, davanti a quella casa che Harpo le ha costruito, Sofia canta “Hell No”. Sofia si fa quindi portavoce della canzone più importante del film. In un crescendo di forza, un crescendo di rabbia, “Hell No” diventa un simbolo, un canto contro la violenza sulle donne. Un canto colmo di grinta, pieno di forza, di energia, proprio come quella che serve per reagire contro la mano pesante e invadente dell’uomo.
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E siccome il Blues andava forte durante il primo decennio del novecento, Shug Avery (interpretata da Taraji P. Henson), famosa cantante e ballerina, figlia del reverendo Avery, torna in città, mettendo in visibilio gli animi della gente del luogo che si abbandonano ad una scatenata “Shug Avery”. Sexy, provocante nella vita e nelle sue esibizioni, fa letteralmente perdere la testa sia al Mister che a Celie.
Paradossalmente il Mister e ogni uomo del luogo che incrocia lo sguardo di Shug Avery, si piega al suo volere. Incredibilmente se l’uomo prima era padrone del suo potere, ora ne è servo. E Shug, anche se dotata di un animo sensibile, è cosciente di questo potere. In un mondo governato da uomini, dove è la figura del maschio padrone che detiene il dominio, Shug, una donna nera, anche se questa forza le vien data dall’effetto sessuale che lei provoca nell’altro sesso (o nello stesso sesso), è conscia di questo potere e fiera lo usa per vivere un’esistenza libera.
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Solo lei è padrona del proprio destino. E del suo corpo, anche se ondeggia i fianchi per mandare in tilt i freni inibitori di ogni uomo presente. Esattamente come in “Push Da Button”, dove Shug, esibendosi al locale di Harpo, manifesta questo suo potere in un canto dedicato al potere femminile e a quanto l’uomo e la donna debbano trovarsi affini, conciliare i propri desideri affinché il desiderio sessuale trovi pieno piacere da entrambe le parti.
E Celie è attratta da questo potere. Shug è una donna molto bella, dotata di una voce altrettanto bella che Celie ha potuto ascoltare solo attraverso i dischi di Mister, da sempre innamorato di lei. Shug è quindi l’antitesi di Celie. Sexy, di talento, ambiziosa, e soprattutto, libera.
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Nella vita di Celie, che fin da piccola è stata costretta a subire maltrattamenti sia dal padre che dal marito, due figure che in natura, invece, dovrebbero proteggere invece che calpestare l’anima, subentrano due figure femminili importanti, Sofia e Shug che, a loro modo, sapranno guidare la donna, darle forza e incoraggiarla a non piegarsi più.
E grazie a questa forza suscitata proprio dal fascino di Shug che entrambe si abbandonano al sogno. Una danza, “What about love?” dove entrambe trovano rifugio dichiarando i propri sentimenti l’una per l’altra. Si, avete capito bene. E sarà proprio grazie a Shug che la vita di Celie, finalmente, cambierà per sempre.
La sofferenza, la violenza erano purtroppo tra i punti cardine della vita nell’America del sud, in quanto il razzismo era forte e potente, tanto da dominare uno spirito indomabile come Sofia e scatenare in lei un dolore incontrollabile e una vergogna tale da tacere e rimanere in silenzio. Passano gli anni, è il 1936 e sono trascorsi sei anni da quel giorno terribile in cui Sofia si è sentita impotente di fronte alla furia bianca. Una furia scatenata dalla violenza e dalla cattiveria che imperversa incontrollabile nell’animo umano, una furia insita e che domina l’uomo. Lo stesso uomo, ad esempio, che approfittatosi dell’innocenza di una piccola Celie, le ha tolto tutto: rispetto, verginità, purezza e i suoi figli, strappati dalle braccia, appena nati.
E un altro uomo ancora, il Mister, sposato quando Celie era ancora poco più che una ragazzina, si è sentito nel diritto di alzare la mano su di lei. Una mano pesante, arrogante, brutale. Così Celie, grazie a Shug e a Sofia, trova finalmente la forza di reagire. Spinta dalla speranza, dalla forza per troppo tempo nascosta e sostenuta dal calore di due donne energiche, assistiamo alla rinascita di Celie. Con “Miss Celie’s Pants”, la nostra protagonista realizza finalmente il sogno di essere indipendente e aprire una sartoria.
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E proprio lì, in quel luogo che Celie ha trasformato, riportando gioia e serenità, in quella sartoria riaffiorano i ricordi di una donna che oramai ha raggiunto la mezza età. Una donna che ha sofferto tanto, ma che ha anche amato tanto. Una donna che è un’amica, una madre, una figlia, una sorella.
E qui Celie ricorderà, grazie a “I’m Here”, proprio sua sorella che le vuole bene, ma soprattutto ricorderà a sé stessa che è forte e respirerà ogni giorno che le verrà concesso per poter vivere una vita in libertà e nutrendo la speranza di riabbracciare sia Nettie che i suoi figli.
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A dimostrazione che le canzoni sono parte integrante della narrazione del film “Il colore viola”, quella diretta dal regista ghanese Blitz Bazawule, prodotta da Oprah Winfrey, Steven Spielberg e Quincy Jones, è una storia che colpisce, commuove e che dona la prospettiva di una vita migliore. Un’esistenza che può essere affrontata con la virtù di non arrendersi mai. E di non piegarsi mai.
La vita, quella di Celie, è stata una vita come tante altre vite, una storia come molte altre, vissute nella speranza che un giorno arrivi finalmente la forza di reagire.
Nel 1985 fu Steven Spielberg a dirigere l’adattamento di Alice Walker e, in questo nuovo millennio dove la violenza regna ancora, purtroppo, sovrana, con femminicidi cui l’uomo è il diretto responsabile, guardare un film come “Il colore viola” può essere d’ispirazione per trovare quella forza necessaria, anche attraverso le parole di una canzone. Perché la musica, a volte, può salvare una vita.