L’omicidio di Giorgio Agatino Giammona e Antonio Galatola, meglio conosciuto come “Il Delitto di Giarre”, sconvolse la comunità siciliana. Ancora oggi, il colpevole è ignoto e il caso risulta irrisolto.
Quando Albert Einstein frequentava il Politecnico di Zurigo, considerata la sua grande intelligenza e la sua indole a voler imparare sempre di più, ostentava spesso una sicurezza che a molti risultava come sintomo di arroganza. Tant’è che un professore, stanco dei continui quesiti che gli venivano posti dal suo studente, si azzardò di affermare che il futuro Premio Nobel per la fisica credesse di avere tutte le risposte. Ma Einstein sostenne il contrario: “veramente io ho solo domande, ma se non chiedo come posso risolvere i miei dubbi?”.
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Purtroppo però, non a tutte le domande esiste una risposta. E questa è una di quelle macabre storie che di domande ne ha tante, ma di risposte, neanche una.
Anno 1982. Al Santiago Bernabéu, il leggendario stadio di Madrid casa del Grande Real. La Nazionale Italiana di calcio, guidata da Enzo Bearzot, si aggiudicava il suo terzo Campionato Mondiale, battendo in finale la Germania per 3 a 1 grazie alle reti di Paolo Rossi, Marco Tardelli e “Spillo” Altobelli.
Intanto, in un piccolo paesino della Sicilia rurale e operaia, così come nel resto d’Italia, il popolo è in festa. E mentre la bandiera tricolore sventolava ovunque, Gianni e Nino, due giovani adolescenti innamorati, salgono a bordo del motorino di Nino, il Ciao, sfrecciando via, oltre la folla. Ma la loro fuga d’amore ha breve durata. Poiché le loro vite saranno spezzate da due colpi di pistola.
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Così si conclude “Stranizza d’amuri”, una pellicola datata 2023 che segna l’esordio alla regia di Giuseppe Fiorello. E poi, per un pubblico ignaro, nei titoli di coda, compare la scritta “A Toni e Giorgio che, nel 1980 in Sicilia, furono uccisi perché si amavano”.
Ma chi erano i due ragazzi la cui storia è stata fonte di ispirazione per la pellicola di Fiorello? Perché il regista siciliano ha voluto dedicare a loro la sua opera prima?
Il 1980 fu un anno decisamente duro per l’Italia. Al nord imperversavano gli omicidi del Collettivo Ludwig, ossia una coppia di serial killer neonazisti nutriti dalla convinzione di avere il dovere di punire tutti quegli individui considerati “impuri”. L’Emilia Romagna invece venne sconvolta dal tremendo attentato alla stazione di Bologna in cui persero la vita 85 anime innocenti. In Sicilia intanto, si era consumato un orrendo delitto, che ancora, a 44 anni di distanza, non ha ancora un colpevole.
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31 ottobre 1980. La comunità di Giarre, un piccolo paesino della provincia di Catania, si stava preparando a festeggiare il giorno di Ogni Santi quando, nelle campagne della Vigna del Principe, un pastore intento a far pascolare le proprie pecore, sotto ad un enorme pino marittimo, scorse una strana massa che emanava un tanfo nauseabondo.
Per un attimo, l’uomo distolse l’attenzione dalle sue bestie, intente a ruminare l’erba fresca del mattino, e si avvicinò incuriosito, pensando magari ad un animale morto e ormai in stato di decomposizione.
Ma bastarono pochi secondi perché l’orrore si palesasse davanti ai suoi occhi. Quello non era un animale, ma i cadaveri di due persone avvinghiate in un ultimo, tenero e disperato abbraccio.
I carabinieri giunsero accorrendo sul luogo del delitto e, nonostante le pessime condizioni dei corpi, non ci misero molto ad identificare i defunti. A Giarre erano conosciuti come “I Ziti” (i Fidanzati) e i loro nomi erano Giorgio Agatino Giammona, di anni 25, e Antonio Galatola, che tutti in paese chiamavano Toni, di appena 15 anni.
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Giorgio era ormai tristemente noto a Giarre, un piccolo paesino che nella Sicilia degli anni ’80 provava un certo disprezzo per l’omosessualità, soprattutto per coloro che, come lui, non si erano mai vergognati e non avevano mai provato a nascondere la propria natura. Fiero del suo essere e incurante del giudizio dei suoi compaesani, Giorgio Giammona era stato etichettato come “Puppu ‘cco bullu” (ovvero “omosessuale con timbro”) dopo che, anni addietro, era stato sorpreso con un altro ragazzo in atteggiamento molto, ma molto intimo, in macchina.
Un episodio che, oltre ad una denuncia per atti osceni in luogo pubblico, gli era valso anni di persecuzioni, soprusi e bullismo. Al contrario, prima che la relazione tra Toni e Giorgio venisse scoperta, Toni era un ragazzo a cui tutti volevano un gran bene.
Figlio di un venditore di giocattoli ambulante, ben educato e gentile, era il classico “bravo picciotto” che andava d’accordo con tutti e che spesso aiutava il padre con il suo lavoro.
Quando i loro cadaveri vennero rinvenuti nell’agrumeto, i due amanti erano scomparsi. Da quattordici giorni. Quindi, potete immaginarvi lo stato in cui erano i cadaveri rinvenuti dall’anziano pastore.
Lo stato di putrefazione della carne e le pessime condizioni degli abiti, consumati dall’umidità e dall’usura del tempo, confermarono che il decesso era avvenuto molti giorni prima. Nonostante ciò, la causa della morte fu facilmente individuabile. Giorgio e Toni infatti erano stati uccisi da un colpo di pistola alla testa.
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Purtroppo in Italia, a quel tempo, specialmente nei piccoli paesini come Giarre, vigeva una forte intolleranza, per non dire peggio, seguita da tanta ignoranza in merito, nei confronti di chi anche solo ostentava una certa “diversità” comportamentale. Difatti, anche le forze dell’ordine, che non avevano alcuna intenzione di dare troppa importanza alla morte di due omosessuali, bollarono alla svelta il caso come suicidio.
E il biglietto trovato tra le pieghe dei pantaloni dei ragazzi, in cui “ammettevano” di non farcela più a vivere quella vita colma di persecuzioni e disprezzo, confermò la tesi degli agenti. Tuttavia, alcuni investigatori non erano per niente convinti di questa risoluzione.
Anche se il biglietto fosse stato autentico, cosa che non è mai stata effettivamente appurata attraverso un esame della calligrafia, l’arma del delitto, una Bernardelli calibro 7,65, fu ritrovata, sotto terra. A qualche centinaio di metri di distanza. Era quindi praticamente impossibile che uno dei due Ziti, avesse commesso quell’atto disperato.
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Difatti, secondo coloro che avevano chiuso il caso così in fretta, uno tra i due amanti avrebbe, non appena aver ucciso l’altro, preso la pistola e sparato un colpo in testa. Giusto il tempo di sotterrare l’arma avrebbe trovato la forza (ovviamente con il proiettile in testa) per tornare ad avvinghiarsi al suo amato. Ovviamente era naturalmente impossibile che fosse andata così.
Il caso venne quindi riaperto, ma le indagini non durarono molto. Un paio di giorni dopo il ritrovamento dei corpi di Giorgio e Toni, il colpevole decise di farsi avanti e costituirsi alle forze dell’ordine. Il responsabile del Delitto di Giarre, reo confesso dell’omicidio di Giorgio Agatino Giammona e Antonio Galatola, altri non è che Francesco Messina (per tutti “Ciccio”), il nipote di Toni, che all’epoca non aveva ancora compiuto tredici anni.
Ciccio, confessò di essere lui l’omicida, ma che aveva agito solamente perché obbligato da suo zio. Secondo la versione di Messina, Toni e Giorgio lo avevano condotto nell’agrumeto e regalato un bellissimo orologio. In cambio però avrebbe dovuto uccidere entrambi.
Sempre secondo la versione di Ciccio, gli “Ziti” gli avrebbero consegnato la pistola, posizionandosi sotto il grande pino marittimo. Aggiungendo che, se non lo avesse fatto, loro avrebbero ucciso lui.
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Ai carabinieri non serviva sapere altro. Avevano una confessione e un colpevole, un ragazzino di dodici anni che, naturalmente, data la giovane età, non poteva essere né accusato né condannato. Caso chiuso.
Ma, riflettendo, è proprio dalla confessione del piccolo Messina che vengono fuori una serie di dubbi e incongruenze. Per prima cosa, Ciccio aveva dichiarato che erano stati Toni e Giorgio a consegnargli la pistola. A quanto pare era stato appurato che nessuno dei due aveva mai posseduto né avuto a che a fare con un’arma da fuoco.
Messina rivelò di aver sparato sette colpi per compiere la volontà dello zio. E, sebbene effettivamente dalla Bernardelli fossero stati sparati tutti e sette i proiettili, solamente due avevano colpito Toni e Giorgio. E sulla scena del crimine non era stato rivenuto nessun bossolo. Quindi, è lecito chiedersi: che fine avevano fatto gli altri cinque proiettili?
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Ciccio aveva anche confessato di aver compiuto l’omicidio nell’agrumeto, dove i corpi senza vita erano rimasti lì, in attesa di essere ritrovati, per ben quattordici giorni. Ma, durante le estenuanti ricerche da parte dei famigliari e delle forze dell’ordine, a seguito della denuncia di scomparsa di Giammona e Galatola, il terreno era stato ispezionato approfonditamente. E dei cadaveri non c’era stata traccia. È quindi plausibile che, al contrario di quanto affermato dal piccolo Ciccio, l’esecuzione fosse avvenuta da un’altra parte. E che i cadaveri fossero stati portati nel luogo del ritrovamento. Ma in un secondo momento.
Un’impresa decisamente troppo ardua e complicata perché possa essere stata compiuta da una sola persona. Figuriamoci da un ragazzino di dodici anni. E a sostegno di tale ipotesi c’è il fatto che nessuno, nelle vicinanze dell’agrumeto, abbia sentito alcun rumore. Nemmeno uno sparo. E sulla scena del crimine non vi era traccia di sangue, se non quello sugli abiti logori dei due poveretti.
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Tuttavia, anche se in un secondo momento Ciccio Messina ha sostenuto di aver confessato solamente perché obbligato dai carabinieri, dopo la confessione, nessuno ha sentito il dovere di indagare oltre.
Come abbiamo enunciato in apertura infatti, questa è una storia, un crimine che di domande ne ha molte, ma di riposte neanche una. Per le forze dell’ordine, il colpevole del Delitto di Giarre, rimase il piccolo Ciccio. Poco importa che la sua storia non fosse affatto attinente ad una possibile realtà.
Il caso era risolto.
Ma per fortuna, non tutti accettarono tale conclusione. Come successe allo Stonewall Inn nel 1969, quando un gruppo di donne e uomini omosessuali si ribellò ai continui soprusi e alle violenze da parte dei poliziotti, dando così via a quei moti che portarono alla fondazione del Movimento di Liberazione Gay Statunitense, la comunità LGBTQ+ siciliana decise di insorgere.
Al contrario di quanto avvenuto a New York quel 28 giugno del 1969, non ci furono scontri né atti di violenza. Un mese dopo i funerali di Toni e Giorgio, a Palermo, il sacerdote Marco Bisceglia fondò il primo Circolo Arcigay italiano, dando così il via ad un’importante associazione che oggi ha sedi in tutta Italia e conta oltre 200.000 membri. Grazie all’Arcigay è nato il Pride nel nostro paese.