“Il tempo che ci vuole”. Dalla Mostra del Cinema di Venezia una storia tanto profonda quanto personale.
“Qual è il tuo personaggio preferito di Pinocchio?”
Da questa semplice domanda nasce quello che probabilmente è uno dei ricordi più belli e teneri del rapporto tra Francesca Comencini, qui nelle vesti di regista e sceneggiatrice, e suo padre Luigi. Una domanda come tante altre, fatta da un uomo alla figlia di otto anni, senza alcun significato apparente. Un innocuo quesito che potrebbe essere dettato dalla semplice curiosità o dal desiderio di un papà di approfondire il suo rapporto con la sua bambina. Un modo come un altro per stabilire un legame e, allo stesso tempo, di generare una visione in grado di trasportare la piccola Francesca nel fantastico mondo del padre Luigi Comencini, una delle menti cinematografiche più importanti e creative del panorama italiano dello scorso secolo.
Dal romanzo di Carlo Collodi comincia quindi la storia biografica che Francesca Comencini ha deciso di raccontare attraverso “Il tempo che ci vuole”. E, come il burattino senza fili che fu protagonista del libro, anche Francesca dovrà disubbidire al suo papà, perdersi nel Paese dei Balocchi e, soprattutto, affrontare quel gigantesco Pesce Cane che tanto la terrorizza e con il quale decide di affrescare le strade di Roma.
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Ambientata nell’Italia degli Anni di Piombo, quella de “Il tempo che ci vuole” è una storia profondamente coraggiosa e intima che, come in una fiaba, porta alla luce un rapporto padre – figlia burrascoso ma, allo stesso tempo, intenso e ispirato.

Dalla strage di Piazza Fontana fino all’assassinio di Aldo Moro per mano delle Brigate Rosse, Francesca Comencini riesce a narrare un pezzo di storia italiana senza però rinunciare al tepore di una vicenda strettamente personale. Si, perché oltre agli attentati e alle notizie di cronaca nera, è sulla magia del cinema e sul senso di evasione che essa può trasmettere che si fondano le basi del rapporto tra Luigi e sua figlia Francesca.
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“Paisà” di Roberto Rossellini, “L’Atlantide” di G. W. Pabst e gli spezzoni dei film muti, molti dei quali sono stati salvati dalla fiamme dell’esercito tedesco da Comencini stesso, sono le opere che porteranno Francesca ad amare la Settima Arte. Mentre sullo schermo, grande o piccolo che sia, scorrono le immagini e la bambina ormai divenuta donna si trova costretta ad affrontare le conseguenze della sua dipendenza, e in lei si sviluppa una profonda ammirazione per il padre e per il suo mestiere di regista. Una passione tanto viscerale che la porterà a intraprendere la sua stessa carriera. Eppure, tutto questo, assieme alle avvolgenti musiche di Fabio Massimo Capogrosso, non è altro che il sottofondo della storia di Francesca.
Prodotta da Kovac Film e da Rai Cinema, “Il tempo che ci vuole” è infatti una pellicola che racconta la vita, non il cinema e neppure la Storia. Per quanto la Settima Arte sia parte integrante del rapporto tra Luigi, impersonato da Fabrizio Gifuni (L’amica geniale), e Francesca, la cui parte è stata affidata a Romana Maggiora Vergano, è la vita reale, al di fuori dei set e delle produzioni cinematografiche, quella che la regista vuole raccontare. La Sua vita e quella di suo padre. L’Uomo, non l’artista.

Una vicenda che si sviluppa nell’arco di trent’anni (circa), sorretta da una sceneggiatura scritta in maniera sincera, che non tenta di edulcorare in nessun modo i periodi peggiori della vita di Francesca. Una sincerità che la cineasta classe 1961 riesce a trasmettere attraverso la sua regia essenziale ma profondamente ispirata. O, addirittura, coraggiosa se vogliamo.
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Come afferma Luigi Comencini, qui impersonato da un Fabrizio Gifuni che si dimostra (ancora una volta) uno dei migliori attori italiani in circolazione, quella dell’autobiografia è una scelta audace, che neppure lui ha mai avuto l’ardore di intraprendere. Ma che a sua figlia riesce molto bene.
Gifuni ci regala quindi il ritratto intenso di un uomo affezionato alla propria figlia e di un artista che vorrebbe vedere la sua bambina trovare la propria strada, appassionarsi ad essa e realizzare qualcosa che possa lasciare un segno. Anche in una sola persona. Dal canto suo, Romana Maggiora Vergano, giovane e talentuosa, porta in scena una giovane donna apparentemente persa e incapace di trovare un proprio scopo nella vita. L’intesa che sequenza dopo sequenza viene a crearsi tra Francesca e Luigi trova la perfetta rappresentazione nelle perfomance dei due interpreti, entrambi in stato di grazia.
Se Francesca Comencini riesce quindi a creare una storia tanto intima quanto profonda, Romana Maggiora Vergano e Fabrizio Gifuni danno volto alle paure e alle speranze di Francesca e Luigi. Il risultato è una pellicola in grado di rappresentare la magia della Settima Arte raccontando una storia di vita reale e non cinematografica.
Di seguito il Trailer del film “Il tempo che ci vuole”.