Nel 2019, con il suo secondo lungometraggio horror, il comico e regista Jordan Peele ha deciso di osare di più e di creare una pellicola ben più stratificata e sfaccettata rispetto al suo film d’esordio “Scappa – Get Out“.
Il film in questione è “Noi“, in cui l’orrore si intreccia a temi sociali e politici delicati quali l’appropriazione culturale e il razzismo, andando a scavare nelle contraddizioni dell’America post-razziale che, da un lato, mostra un viso sfavillante che offre mille opportunità, mentre dall’altro una seconda faccia violenta e distruttiva.
Il film si apre nel 1986 mostrandoci Adelaide, una bambina afroamericana, che si perde in un tunnel degli specchi di un lunapark sulla spiaggia di Santa Cruz. Adelaide però sembra non trovare la via di uscita da quel labirinto e vaga spaventata e sperduta, finché non sbatte contro uno specchio… o meglio, quello che sembra uno specchio. Infatti, la bambina del tutto identica a lei che Adelaide si ritrova davanti non è il suo riflesso, bensì una sua copia; che d’ora in avanti indicheremo come Red.
Diversi anni dopo, Adelaide (interpretata da Lupita Nyong’o), il marito Gabe Wilson (Winston Duke) e i loro due figli Zora e Jason (Shahadi Wright Joseph ed Evan Alex) si recano nella loro casa sulla spiaggia per le vacanze, proprio la casa vicino al tunnel degli specchi in cui da bambina Adelaide aveva vissuto quell’esperienza traumatica. Ben presto però, quella situazione idilliaca verrà turbata da un evento spaventoso: una famiglia del tutto identica alla famiglia Wilson, in tute rosse e muniti di forbici, irrompe in casa. Come la pellicola rivela, questi cloni spaventosi (ogni cittadino americano, in realtà, ne possiede uno) sono frutto di un esperimento fallito del governo, costretti a vivere in tunnel sotterranei e condannati ad imitare le vite di “quelli di sopra” senza possibilità di scelta.
Volendo analizzare il simbolismo che pervade l’intera vicenda del film di Jordan Peele, si può iniziare dal tema dell’alterità. I Wilson sono la tipica famiglia americana ricca in vacanza in una bella casa sulla spiaggia; i loro vicini, i Tyler, sono ancora più ricchi e con una casa ancora più grande e bella. La rivalità tra le due famiglie si nota dal primo momento, quando ognuno sfoggia i nuovi acquisti; come la nuova barca; o i recenti interventi di chirurgia estetica. Il desiderio di somigliare a chi è in una posizione privilegiata va immediatamente a scontrarsi con la paura generata dall‘altro e con il tentativo di affermare la propria diversità dal marginale e svantaggiato.
Ma in questo film l’altro non è poi così estraneo, trattandosi di copie dei protagonisti.
Un’altra analisi può essere condotta prendendo in considerazione l’elemento gotico dello specchio, largamente utilizzato nella pellicola, e tutto ciò ad esso collegato come, ad esempio, la duplicità. Tra Cinque e Seicento, l’uomo inizia ad acquisire maggiore consapevolezza della propria identità; così come del fatto che la realtà può essere interpretata in maniera differente a seconda della posizione in cui ci si trova.
Posizioni differenti come quelle di Adelaide e Red, del tutto identiche, legate da un primo incontro nella loro infanzia avvenuto proprio in una casa degli specchi, il luogo in cui il sé si frantuma e moltiplica, ma anche il luogo in cui le due bambine – come si apprenderà alla fine del film – si sono scambiate, innescando una serie di riflessioni. Dopo quel primo incontro, la bambina che ha iniziato a vivere la vita “di sopra“, rimuove il trauma grazie anche all’aiuto di una psicologa. Quando però ritorna nella sua casa al mare e si reca con la famiglia proprio sulla spiaggia di Santa Cruz, ciò che era rimasto sepolto a lungo inizia a riemergere e a tornare, sia metaforicamente che fisicamente, dato che il suo clone si presenta alla porta.
Le due donne, entrambe incomprese – ma anche incomprensibili tra di loro – riescono a comunicare solo attraverso il linguaggio della danza. “Encourage her to draw, to write, to dance. Anything to get her to tell us her story”: la psicologa consiglia ai genitori della bambina di incoraggiarla a disegnare, scrivere o danzare – incoraggiarla a raccontare la sua storia. Adelaide, chiusa nel suo mutismo, sceglierà la via della danza.
A tal proposito, è utile analizzare la bellissima scena del Pasde Deux.
Si tratta di un tipo di danza che si esegue in coppia, mentre nel film Adelaide e Red ballano in solitaria, una sopra e l’altra sotto, o – se vogliamo – sono loro le componenti della coppia, legate in una danza di definizione in cui sono loro stesse a condurre la scrittura del sé attraverso i loro passi. Mentre la bambina di sopra balla sotto i riflettori acclamata da un pubblico caloroso, la bambina di sotto danza su un pavimento freddo di in un corridoio stretto. Eppure, entrambe stanno comunicando la propria marginalità e solitudine a chi le guarda. La colonizzazione; tema carissimo a Jordan Peele; ha tentato di cancellare la cultura e le identità dei popoli colonizzati, i quali hanno ricercato e trovato sempre nuovi modi per poter resistere; tra questi c’è proprio la danza che si configura come un potente linguaggio di resistenza.
Nel finale del film, quando le due donne si rincontrano, avviene uno scontro faccia a faccia – un nuovo duetto – alla fine del quale sarà comunque Red, ovvero quella di sotto, quella incatenata e sfruttata, a soccombere, trafitta da Adelaide. In una situazione di ribaltamenti continui non esiste un’interpretazione univoca degli avvenimenti di questo film complicato e straordinario. Ma si può affermare che esso sottolinei l’importanza del raccontarsi. Prima di morire, Red riesce a fischiare un motivo con il poco fiato che le è rimasto, come a simboleggiare che, anche se la sua danza si è conclusa, fino al suo ultimo respiro non rinuncia a far sentire la sua voce, non rinuncia a condurre la sua battaglia; nonostante tutti i tentativi messi in atto per tenerla al buio e nel silenzio.
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