“Accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso.” (“Se questo è un uomo” Primo Levi)
Ed è con questa citazione e premessa iniziale, presa dal romanzo di Primo Levi che ispirò questo film di Gillo Pontecorvo del 1959, che ci si può apprestare a parlare della giovane Edith (Susan Strasberg) e della sua triste storia; una ragazza ebrea spensierata di quattordici anni che vive a Parigi con la famiglia. Un giorno senza preavviso viene deportata dalle truppe naziste, con la madre e il padre, ad Auschwitz. Dopo aver assistito alla tragica morte dei genitori nelle camere a gas, l’adolescente riceve una nuova identità da un medico che ha compassione di lei. L’uomo al posto della Stella di David, (metodo di identificazione degli ebrei da parte dei nazisti) le dona una casacca a righe con un triangolo nero, simbolo dei ladri, e la battezza con il nome di Nicole Niepas una coetanea criminale francese deceduta poco prima, della cui scomparsa nessuno si è accorto.
Dal lager di sterminio viene trasferita in Polonia, in un campo di lavoro. Lo scambio di persona, il freddo, la fame, gli stenti, l’abuso da parte delle S.S. e un forte istinto di sopravvivenza trasformano la protagonista in una prostituta, traditrice e una spietata Kapò: una sorvegliante che ha il compito di controllare e comandare le altre recluse. Ben presto le compagne, la odieranno alla stregua dei loro carcerieri nazisti.
Il tempo passa e nel campo arrivano dei soldati sovietici messi ai lavori forzati.
Tra questi c’è Sascha (Laurent Terzieff), un ragazzo che con il suo entusiasmo, l’umanità e gli ideali di speranza colpisce il cuore dell’aguzzina. Il fantasticare insieme su un futuro migliore e una vita diversa, fa nascere nell’ormai sedicenne e nel giovane un sentimento d’amore reciproco; Nicole arriva a confidargli anche la verità sulle sue origini.
La fine della guerra è alle porte. Il campo e i prigionieri sono in fermento per l’arrivo dell’Armata Rossa. Gli uomini mettono in atto un piano di fuga, ma per farlo hanno bisogno della complicità di una guardiana, l’unica capace di passare inosservata per staccare la corrente. Edith decide di aiutarli , ma scopre che l’unico modo per salvare in massa i detenuti, è sacrificando se stessa. Nel tragico epilogo, la ragazza, recuperata la sua coscienza, troverà il coraggio di redimersi per amore. Riuscirà a riscattarsi riconciliandosi con il Dio del suo popolo, morendo come un martire e con onore.
“Kapò” fu presentato per la prima volta alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1960. L’impatto fu molto forte sul pubblico e gli addetti ai lavori. Gli echi della guerra e dei campi di concentramento erano ancora troppo vicini, la pellicola ebbe un grande successo; ancora oggi è considerata una delle opere italiane più importanti sull’Olocausto.
Nel 1961 fu nominato agli Oscar come miglior film straniero, ma perse la statuetta contro “La fontana della vergine” di Ingmar Bergman, un degno avversario.
Le polemiche su “Kapò” non si fecero attendere. Tra le accuse più rilevanti quella del regista Jacques Rivette, importante critico di una nota rivista francese. Nel 1961 sul numero 120 dei Cahiers du Cinéma pubblicò un articolo dal titolo “De l’Abjection”, in cui rimproverava al cineasta di aver utilizzato un movimento di macchina in maniera abietta. Si riferiva alla carrellata in avanti per inquadrare la scena del suicidio di Emanuelle Riva sulla recinzione elettrificata.
Il soggetto di “Kapò” fu scritto da Gillo Pontecorvo e lo scrittore–sceneggiatore Franco Solinas. I due avevano iniziato una stretta collaborazione sin dal 1956 con l’episodio “Giovanna”, un documentario a sfondo sociale sulle operaie tessili pratesi. I due amici non sempre furono d’accordo sulla strada da seguire. Il regista pisano, ad esempio, non voleva inserire la vicenda amorosa nella storia e preferiva dargli un taglio più realistico, tipico del suo stile, ma alla fine cedette e accettò il compromesso. Il sodalizio proseguì fino al 1969 con “Queimada” che vantava una stella hollywoodiana come Marlon Brando.
Ma è nel 1966 con “La battaglia di Algeri”, la sua opera migliore, che insieme conquisteranno La Palma d’Oro a Cannes e conobbero per la seconda volta la fama internazionale.
Nella pellicola venne utilizzata dal direttore della fotografia jugoslavo Aleksandar Sekulovic, la tecnica della “fotografia controtipata”, che rendeva le immagini più granulose, sfruttate meno dalla cinematografia e più dai cine-giornali, rendendo l’effetto più verosimile. Gillo Pontecorvo da ragazzo aspirava e voleva intraprendere la carriera di direttore d’orchestra, per questa ragione nelle sue opere partecipò spesso alla realizzazione della colonna sonora. Le note composte con Carlo Rustichelli, avevano il pregio o il difetto di fondere continuamente note malinconiche con altre altamente drammatiche e strazianti. Il merito delle scenografie suggestive ed i costumi invece, spetta all’architetto Piero Gherardi, che pochi anni dopo avrebbe iniziato una stretta collaborazione con Federico Fellini con cui conquistò vari Oscar.
Il cast comprendeva, nel ruolo della protagonista Susan Strasberg, figlia del regista teatrale, insegnante e direttore dell’Actor Studio dal 1950, Lee Strasberg. L’attrice all’epoca aveva ventun anni ma riuscì a rendere il personaggio quattordicenne della giovane Edith credibile, anche se in alcune sequenze non riuscì ad essere sempre spontanea.
La parte di “Kapò” le rese una grande popolarità e la consacrò a star mondiale. Nel film è doppiata dalla bravissima Luisella Visconte.
Il soldato russo dallo sguardo intenso e i lineamenti marcati, di cui si innamora Nicole–Edith, era interpretato da Laurent Terzieff, un attore francese che veniva dal teatro d’avanguardia ed era stato lanciato un anno prima sul grande schermo da Marcel Carnè. A vincere il Nastro d’Argento come miglior attrice non protagonista, fu Didi Perego che impersonava Sofia, fucilata da un nazista mentre si ribellava ad un comando. Emmanuelle Riva aveva recitato solamente in un film, ma era conosciuta grazie al capolavoro di Alain Resnais “Hiroshima mon amour”(1959). Va ricordato anche che l’aiuto regista di Gillo Pontecorvo, Giuliano Montaldo, amico, attore e regista lui stesso, che oggi ha novant’anni ed ha alle spalle una lunga carriera artistica.
Questa non è la sede giusta, ma per comprendere appieno il cinema di Gillo Pontecorvo bisognerebbe parlare a lungo della sua vita. Sicuramente può essere considerato a pieno titolo uno degli eredi del neorealismo italiano. Il regista nato a Pisa da una famiglia ebraica laica benestante, abbandonò ben presto gli studi e l’università, inizialmente per giocare a tennis. Successivamente divenne antifascista e, costretto a scappare dalle leggi razziali, si trasferì a Parigi dove venne a contatto con il mondo degli intellettuali e artisti francesi, che ne influenzeranno gli esordi. Da sottolineare che fu un partigiano e si iscrisse al Partito Comunista Italiano.
“Kapò” non è un film perfetto. Ci sono delle ingenuità e dei difetti, ma non si può neanche accusare Gillo Pontecorvo di aver “trasformato la Shoa in un melodramma”. Per comprendere l’Olocausto e i film che lo raccontano, forse bisognerebbe ascoltare le parole della Senatrice Liliana Segre:
“E nei loro occhi ho visto tutto lo stupore per il male altrui. Così scriveva Primo Levi in quella prima dolorosa pagina de “La Tregua” per descrivere lo sguardo dei soldati russi alla vista del campo abbandonato di Auschwitz; e così mi sono sentita anch’io, quando, deportata a tredici anni, non riuscivo a capacitarmi di tanta crudeltà “.
Lo stesso sguardo di “stupore per il male altrui”, lo recuperò nel 1993 Steven Spielberg, quando girò in bianco e nero “Schindler’s list”. Il regista statunitense, anche lui di origini ebraiche, lo stesso anno durante la 50^ edizione della Mostra del Cinema di Venezia, mentre riceveva da Gillo Pontecorvo il Leone d’oro alla carriera, confidò sul palco a tutti gli astanti, l’ammirazione che nutriva per i lavori del regista italiano. Fu quasi un simbolico passaggio di consegna.
Il regista Pisano non vanta una lunga filmografia, ma è stato un autore originale e coerente con le storie che ci ha narrato. Non ha mai prediletto la via del successo e del denaro. La sua passione per la Settima Arte sembra esser stata mossa sempre da un credo profondo, un’ideologia rara tra le schiere di nuovi cineasti. Per questa ragione il suo cinema non va dimenticato, deve considerarsi attuale ed essere preso da esempio, come bagaglio culturale della memoria di ogni essere umano.
Dedicato al 27 gennaio Giornata della Memoria