Un giorno la carta tacque, la penna rimase muta
Non giunse più alcuna lettera e dopo nessuna scusa (Murubutu)
Ultimamente mi rigira in continuazione una questione: che valore ha assunto oggi il rap nel panorama della musica contemporanea?
Non tutte le canzoni rap sono uguali: ci sono pezzi volutamente scritti e pensati con lo scopo di essere una satira o una critica sociale e politica: penso ovviamente a brani del tipo Rap in Vena di Fabri Fibra, o Mary dei Gemelli Diversi (sono un po’ vecchia scuola), un brano evocativo scritto per denunciare l’orrore e lo scempio delle violenze femminili, in particolare in ambito domestico. Per passare a voci più contemporanee come Salmo, Gemitaiz, Madman, Nitro, Marracash, o voci rosa che rappresentano l’anima donna del rap, come Eva Rea o Madame (purtroppo ci sono ancora troppi pochi nomi, ma confido che col tempo si possa avere una lista più lunga). Ma nella scena rap ci sono sicuramente delle penne che hanno fatto del rap, genere basato più di altri su rime, versi, incastri e figure retoriche, una nuova appendice della letteratura, come sono quelle di Caparezza, Rancore, Mezzosangue.
Ma c’è decisamente un uomo che può essere l’unico e solo rappresentate della letteraturap, come lui stessa l’ha definita, e quello è Murubutu, al secolo Alessio Mariani.
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Il nostro professore per eccellenza con i suoi rapconti ci ha insegnato la storia, ci ha parlato di filosofia. E ha riportato alla luce le mille sfaccettature della mitologia, passando in mezzo alla letteratura di ogni luogo e tempo.
Leggere un brano di Murubutu significa entrare in un mondo fuori da ogni confine spazio-temporale; significa essere risucchiati dentro un libro e sentire il fruscio delle pagine che scorrono veloci. Ha cantato di tutto, ha scritto di tutto, ha parlato di tutto. Da che ho ascoltato per la prima volta Murubutu (a dire la verità neanche da troppo tempo) me ne sono innamorata. Mi sono innamorata del suo modo di narrare, dei suoi incastri perfetti, delle sue immagini evocative. Se De Gregori è stato definito “il principe” della canzone italiana, potremmo dire che Murubutu lo sia del rap italiano, per il suo saper raccontare delle storie che per certi versi sanno d’antico.
Quando racconta, il poeta Murubutu sembra essere continuamente ispirato dalle suggestioni di una Musa, anzi, di qualche musa: Giulia, Giulietta, Anna, Mara, Dafne, Laura, Donata, Milena.
Sembrano nomi di donne qualunque, ma in realtà sono solo alcuni dei nomi delle donne protagoniste delle sue storie cantate. Facendo un breve riascolto delle sue canzoni mi sono resa conto di come il rapporto con il mondo femminile sia per Murubutu non una banale e svilente narrazione sessista che concepisce la donna solo come oggetto vittima degli stereotipi più beceri basati su estetica e luoghi comuni tipicamente maschili (come spesso molti suoi colleghi rapper fanno, risultando profondamente offensivi e alquanto banali e retorici nei confronti delle donne, perorando ulteriormente l’immagine tradizionale venutasi a costruire nel corso del tempo intorno alla donna), ma più una particolareggiata introspezione psicologica del mondo della donna, mostrandosi non solo rispettoso ma anche innovativo e squisitamente poetico.
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Sia chiaro. Questo atteggiamento poetico potrebbe sembrare uno scontato ritorno alle origini della poesia, quando la donna era vista solo in maniera strumentale e stimolo dei poeti per comporre. In realtà le donne proposte da Murubutu hanno un certo raggio d’azione importante e determinante per l’economia del testo. Una certa agency tipica della grande letteratura russa e novecentesca in generale, soprattutto prodotta dalle scrittrici.
Murubutu si dimostra non solo un grande conoscitore dell’animo femminile, ma anche un conoscitore della produzione femminile. Vi faccio un esempio lampante: uno dei suoi brani più famosi, Isola Verde, la storia di un ragazzino di nome Claudio nato su questa isola dai colori naturali e selvaggi, abbandonato alla nascita e accudito dai suoi abitanti, sembra ricalcare, non alla lettera ma con lampanti paragoni e con un sapiente uso di una lingua poetica ma allo stesso tempo intrisa di un crudo lirismo, L’isola di Arturo di Elsa Morante, per quanto in numerose interviste non abbia mai fatto riferimento ad un possibile aggancio con il seguente romanzo.
Murubutu domina la materia, e lo fa fondendo in un unicum rap e letteratura.
Come appaiono le donne di Murubutu? Lo sguardo che il Mariani rivolge loro è uno sguardo apparentemente esterno ma profondamente empatico, vòlto a mettere in evidenza una delicata umanità fatta di virtù dal sapore classico, virtù tipiche dei grandi eroi dell’epica classica, quali Ulisse, Enea, Ettore, come la fedeltà, la pietas, il rispetto, la cura, il rigore, la dignitas.
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Virtù possedute anche da tante eroine della mitologia canonica, quali Antigone, Medea, Alcesti, Andromaca, o Lucrezia (quella figura mitica che agli addetti ai lavori riconduce subito a quel momento di passaggio, nella Roma antica, dalla Monarchia alla Repubblica consolare delle origini), considerata l’esempio per eccellenza di virtù e rigore, alla quale le donne romane si ispiravano.
Se da una parte Murubutu mette in evidenza le virtù della donna, dall’altra spesso dipinge le sue tante protagoniste con note di follie. Follia mentale o follia d’amore? Decisamente follia mentale: ne è l’esempio Mara e il maestrale, (L’uomo che viaggiava nel vento (E altri racconti di brezze e correnti) 2016) uno dei miei brani preferiti del prof, dove la protagonista, Mara, affetta da Alzheimer, conosce, durante la sua giovinezza, un uomo, Nando, che sposerà e seguirà in Francia, dove lui sarà impiegato come minatore nei giacimenti di sale e lei come mondina nelle risaie.
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Una volta arrivata nella nuova realtà (si noti il cambio di soggetto nella narrazione, dalla terza persona dei ricordi alla prima persona, Mara, del presente) la malattia prenderà pian piano il sopravvento su di lei: i ricordi del passato si sedimentano, il presente man mano si dissolve, e con essi anche Nando, che crede sia scomparso, ma in realtà è solo lei, purtroppo, a non riconoscerlo, ma lui nonostante tutto, anche se non fisicamente, rimarrà sempre al suo fianco:
Ora Mara non è sola, vive nella vecchia casa nel vento
A volte chiede delle risaie, guarda i campi non capendo
Quando esce per la campagna c’è un vecchio che l’accompagna
Chi passa lo chiama Nando e lui saluta col cappello.
È un brano certamente malinconico e terribilmente triste, ma lo trovo altresì romantico, simbolo di un amore eterno. Come possiamo capire, quindi, ci sono sia storie che narrano le vicende di singole donne, come appunto Mara e il maestrale, Storia di Laura o Dafne sa contare o ancora Taide o Grecale, ma più spesso sono storie d’amore, alle volte inventate, alle volte che riprendono storie famose realmente accadute o della letteratura, come La vita dopo la notte, Anna e Marzio, Franz e Milena, Paolo e Francesca.
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Dove sta l’innovazione magistrale di Murubutu? Sicuramente nel portare avanti un concept tematico per tutto l’album, portando l’ascoltatore ad una immersione totale nei suoni e nelle parole, col risultato di diventare parte integrante di una intensa storia suggestiva ed evocativa, come in Franz e Milena, brano tratto da Tenebra è la notte e da altri racconti di buio e crepuscoli (2019), album il cui titolo gioca sulla rielaborazione del titolo del romanzo di Fitzgerald Tenera è la notte (1934).
Franz e Milena è la storia di un amore epistolare tra due penne solitarie che si incontrarono per la prima volta nella primavera del 1920, in un soggiorno in quel di Merano (Trentino Alto-Adige).
Milena, giornalista e traduttrice soprattutto del ceco, era già sposata con un altro uomo, Ernst, uomo spregiudicato e senza scrupoli, che spesso l’aveva tradita. Franz invece era scrittore, soprattutto di racconti. Si incontrarono principalmente per motivi di lavoro, motivi che dopo quell’incontro vennero meno: da quel momento continueranno ad amarsi tramite parole di carta. Nonostante Franz più volte le abbia pregato, nelle lettere, di separarsi da quell’uomo insulso che la faceva soltanto soffrire, Milena non ebbe mai la forza di separarsene. Proprio quando Franz meditava di mettere fine a quella storia ormai solo di parole, il volere del destino si compie: Franz le invia un’ultima lettera per dirle che l’amerà per sempre, lettera che Milena non riceverà mai, in quanto sarà trasferita, complici le leggi razziali imposte dal Führer, nel campo di Ravensbrück nell’anno 1944.
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Per quanto questa ultima parte del racconto sia stata romanzata da Murubutu per dare una fine letteraria al brano, quella raccontata non è altro che la storia d’amore tra Franz Kafka e la giornalista Milena Jesenská, della quale mette in evidenza, per tutto il brano, la sua sensibilità e la sua incapacità dal sapore moraviano di ribellarsi agli eventi, proprio come i personaggi de Gli indifferenti, senza mai giudicare, solo narrando. Perché questa è l’altra grande caratteristica del nostro professore: non giudica mai nessuno, lui è un modesto ed umile bardo al servizio della parola. Ecco qui la strofa finale, alla quale poi seguirà l’outro dove il Mariani cita la nota canzone anni ’80 I’ve never been to me di Charlene, canzone che evoca il rimpianto o il desiderio irrealizzabile di Kafka, ovvero l’amore:
Un giorno la carta tacque, la penna rimase muta
Non giunse più alcuna lettera e dopo nessuna scusa
E i mondi di inchiostro eretti ed eletti nella scrittura
Crollavano su se stessi fondendo le notti in una
Scriveva fitto il boemo, cuore trafitto
Col cuore fuso sul tavolo e il vuoto scuro nell’animo
Si seppe 10 anni dopo dal termine del conflitto
Internata con tanti altri nel campo di Ravensbrück
Anima affranta, lui non lo seppe, si spense prima di quell’epoca
Restò un’ultima lettera ad attenderla intatta
“Io ancora ti aspetto” firmato: Franz Kafka.
Rimanendo in tema di citazioni Murubutu omaggia anche il mio beneamato Pavese proprio nel primo verso del ritornello, giocando sul titolo della sua celebre silloge Verrà la morte ea vrài tuoi occhi, dove Murubutu aggiunge “[…]il contorno degli [occhi] tuoi”. Non è la prima volta che Murubutu si rifà a Pavese. Molti anni prima di Tenebra è lanotte lo aveva già omaggiato con un’altra canzone, Storia di Laura da Gli ammutinati del Bouncin’ (Ovvero mirabolanti avventure di uomini e mari) 2014, liberamente ispirata al suo famoso romanzo La luna e i falò, che porta all’attenzione un tema ancora oggi tabù, ovvero l’aborto.
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Questa potrebbe essere la storia di una delle tante donne abitanti di quei paesi negli anni ’50 arretrati e dove si respira aria di patriarcato in ogni stipite del paese.
Laura (che nel romanzo di Pavese si chiama Silvia) era figlia di un ufficiale di marina. La madre morì in seguito al parto della bambina. Così il padre si sentì addossato della responsabilità della crescita delle figlia, che crebbe sotto una torre d’avorio, come si suole dire.
Spesso il troppo amore porta la mente ad offuscarsi, tanto che quando la figlia crebbe il padre la tenne lontana da ogni uomo, ritenendo nessuno all’altezza della sua bambina, perfetta perché cresciuta come lui aveva voluto. Ma si sa che le cose prendono sempre una piega inaspettata. Ed è così che la bambina ormai donna si infatua di un uomo dello stesso reggimento del padre, un giovane seducente dagli occhi azzurri che le promette amore e una vita nuova; sapendo la possibile reazione del padre la ragazza scappa con il ragazzo e gli si concede. Ma come in tutte le grandi storie quella dell’uomo era stata solo un inganno per arrivare al suo scopo. Laura, ormai incinta, torna a casa, e il signor padre, su tutte le furie, la ripudia, arrivando così a sprezzarla e a trattarla alla stregua di una poco di buono:
Il padre non volle sentire ragione “Ora trova un padre al bastardo!
Lo crescerai sola in casa lontana da ogni sguardo!
Sarà il frutto amaro del disonore […]
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E così Laura scappa di casa per trovare una mezzana “per farsi ripulire”. Nei racconti di mia nonna ho sentito usare spesso questa espressione, una triste e umiliante espressione usata dalle donne di paese per indicare l’aborto. E così dopo quel gesto, che le costerà la vita, Laura tornerà alla casa paterna, si metterà a letto e morirà in un bagno di sangue a seguito di quell’aborto cruento.
Murubutu usa questo brano anche e soprattutto per denunciare la violenza domestica del signorpadre (Lo udirono spaccare ogni specchio, parlare del male/L’uomo era vecchio: non sapeva dominarsi né comandare; il secondo verso cita direttamente le parole di Pavese che descrivono il sor Matteo, uno dei protagonisti del romanzo, appunto il padre di Silvia, nella canzone padre di Lura), e come sappiamo la violenza non si esplica solo in modo fisico, ma spesso, molto spesso, più a livello psicologico: sarà la battuta finale a coronare gli effetti di quella violenza reiterata nel tempo, che nonostante il dolore e le imposizioni portarono la ragazza ad amare comunque il padre e a considerarlo l’unico uomo della sua vita:
E lei chiusa non volle parlare neppure al dottore
Aprì la bocca solo verso le ultime ore del sole
Quando morì chiamava solo: “Papà, papà” a bassa voce.
Lo trovo uno dei pezzi più difficili da assimilare, Storia di Laura. È un testo toccante e decisamente crudo e diretto, liberato e spogliato di tutti i possibili orpelli letterari, tratto distintivo anche dell’ultima canzone che ho deciso di prendere in esame, ovvero Taide, la nona traccia di Infernvm, l’album pubblicato in collaborazione con una delle sue storiche spalle, Clavergold, lo scorso marzo (in pieno lockdown), album che offre una rilettura in chiave moderna della prima cantica della Divina Commedia di Dante, appunto l’Inferno, un percorso che si snoda su tinte cupe e fosche proprio come l’ambientazione che Dante descrive nel III canto.
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Nella Commedia troviamo Taide nel canto XVIII, nella II bolgia, dove risiedono, immersi in una pozza di sterco, gli adulatori. Taide in vita fu una prostituta (la troviamo citata per la prima volta nella commedia dell’autore latino Terenzio, Eunuchus), appunto quindi l’adulatrice per eccellenza, ovvero degli uomini. I toni di Dante, in un linguaggio basso, sono decisamente sprezzanti, basti leggere la terzine che di lei parlano:
di quella sozza e scapigliata fante
che là si graffia con l’unghie merdose,
e or s’accoscia e ora è in piedi stante.
Taïde è, la puttana che rispuose
al drudo suo quando disse “Ho io grazie
grandi apo te?”: “Anzi meravigliose!”.
Ci va davvero pesante con i termini: la descrive come una donna sporca, dai capelli arruffati (basti sapere che questo dettaglio fa parte delle caratteristiche dell’iconografia classica della prostituta, come in generale i capelli sciolti rappresentavano non tanto uno stato di disordine quanto o una condizione di lutto, penso alle Troiane di Euripide durante il corteo funebre di Ettore, oppure una condizione sociale bassa e abietta) con le unghie che graffiano, sporche anch’esse, che si dimena come una folle, che durante l’esistenza si ritrovava a chiedere ai suoi clienti se quello che faceva fosse di loro gradimento. Di tutt’altro genere il ritratto che ci viene fornito nel brano da Murubutu: un ritratto decisamente elegante, sobrio, composto, che esplora la psicologia di una Taide moderna, una ragazza contemporanea, profondamente malinconica, delusa dalla vita e dal genere maschile, che prende decisamente le distanze dalla figura dantesca.
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Taide è una ragazza imprigionata nel lavoro di prostituta, lei che fa l’amore, forse un po’ per piacere/Un po’ per passione, un po’ per godere (si vede il chiaro omaggio a Bocca di Rosa di De André, proprio a significare la natura del sesso che Taide fa), che si sveglia presto per fuggire dal letto/Lei che non ti dà affetto, lei che neanche ti abbraccia, e proprio perché stanca, sfinita, disillusa, in quei rapporti non mette e non cerca amore perché sa che non sarà ricambiata, perché gli uomini moderni sono figli del niente/Sono pezzi di carne che camminano soli, ovvero bramosi di sesso più che di amore, tanto che arriva a pensare di non essere più lei in grado di amare.
Ma la chiusa della canzone ci fa capire che in realtà Taide sa ancora amare. E farebbe qualunque cosa pur di dare un bacio gratis (è risaputo che le prostitute per un bacio chiedono il doppio). È una canzone che segna decisamente una certa maturità stilistica di Murubutu, come tutti i brani di questo ultimo album.
A seguito di questa carrellata musicale e rosa, si può dire che i ritratti che ne vengono fuori siano ritratti di donne non soggetto, non sottomesse, non sottotono, ma decisamente innovativi, moderni, attuali e contemporanei; alle volte più poetici, alle volte più nudi e realistici, come è d’altronde la vita, una vita che spesso ci mette a dura prova. E quindi, permettetemi di ringraziare il prof Murubutu per averci dato una marcia in più e averci descritto per quello che siamo; semplicemente donne.