“Lo specchio della vita” si inserisce in un filone ben preciso, il melò: un tipo di spettacolo drammatico, romanzato, che imitava la tragedia e che influenzò sin dagli esordi il Cinema Americano grazie ad uno dei pionieri che lo portò alla ribalta ad Hollywood, il grande David Wark Griffith. Erano gli anni di Mary Pickford, star e protagonista di molte opere lacrimevoli del regista. Fu con quest’attrice che il melodramma prese corpo e si identificò in un genere “femminile”.
Inizialmente l’eroina principale era stereotipata. Molte volte si trattava di una fanciulla perseguitata dal destino o da un personaggio malvagio. Ma col tempo la sua figura subì un’evoluzione e da vittima succube, si trasformò in donna forte, risoluta, spesso in carriera e alla ricerca della sua indipendenza. In questo scenario si collocano numerosi cineasti che con maestria diressero dive del calibro di Bette Davis e Joan Crawford; un altro esempio eclatante è la pellicola diretta da George Cukor (soprannominato il regista delle donne) che nel 1954 girò “E’ nata una stella” con Judy Garland.
Ma per comprendere meglio le radici profonde del romanzo “Imitation of life”, bisogna partire dalla scrittrice statunitense Fannie Hurst.
Di origini ebraiche, i suoi libri divennero ben presto dei bestseller e per un periodo fu l’autrice più pagata del dopoguerra, ma ciò non le impedì di diventare un’attivista impegnata e lottare per le cause più importanti dell’epoca: il femminismo, l’uguaglianza afroamericana ed i provvedimenti economici sul “New Deal”, temi che cercò di raccontare nelle sue storie drammatiche.
A portare nel 1934 la prima trasposizione de “Lo specchio della vita” sul grande schermo ci pensò John M. Stahl, ma il film che vedeva protagonista Claudette Colbert, ebbe grossi problemi di censura per gli argomenti trattati. Il remake del 1959, è molto diverso dall’originale ed è l’ultima opera americana di Douglas Sirk (Detlef Sierck), un regista tedesco scappato dalla follia hitleriana e accolto ad Hollywood dove produsse per la Universal i suoi migliori film, di cui forse questo è il suo capolavoro.
La trama analizza le storie parallele di due nuclei familiari femminili molto diversi, che in una società maschilista in cui il potere è in mano ai bianchi, cercano di superare le loro solitudini e frustrazioni aiutandosi le une con le altre.
La prima sequenza della pellicola diretta da Sirk, ci inserisce in un contesto caotico, una spiaggia affollata dove una madre in ansia sta cercando Susy, la sua bambina di sei anni che si è persa; ad aiutarla nella ricerca c’è Steve, un aitante fotografo appena conosciuto. Insieme riescono a trovare la ragazzina che si è intrattenuta a giocare con una coetanea di nome Sarah Jane; da quell’episodio scaturisce l’incontro tra le protagoniste della vicenda, due madri sole, in cerca di lavoro, a corto di denaro, entrambe con una figlia a carico. L’unica differenza che sembra distinguerle è il colore della loro pelle.
Lora Meredith è un’attraente vedova che cerca di sbarcare il lunario facendo l’attrice di teatro; Annie Johnson invece, è una governante nera che si offre di aiutarla accudendo la figlia e la casa in cambio di un alloggio.
Da quell’istante le due donne diventeranno inseparabili. La stessa sorte toccherà a Susy e Sarah Jane. Queste cresceranno come sorelle, anche se quest’ultima, non accetterà mai le sue origini, perché è nata bianca nonostante i genitori fossero di colore.
Lora grazie alla sua determinazione e qualche menzogna, riuscirà a sfondare nel mondo dello spettacolo, garantendosi così una sicurezza economica, non senza pagarne il prezzo. Dovrà infatti rinunciare all’uomo che ama e trascorrerà meno tempo con il sangue del suo sangue. Il rapporto tra le quattro eroine sarà messo a dura prova; soprattutto dai pregiudizi e le discriminazioni sociali dell’epoca, le difficoltà aumenteranno man mano che le ragazze cresceranno; quel filo che sembrava unirle diventerà sottile e invisibile fino ad arrivare al climax dell’annunciata tragedia finale.
Il film ha una chiusura molto diversa dal romanzo che aveva l’obiettivo di spiazzare il lettore. Lo scopo del regista invece era quello di commuovere lo spettatore toccando le corde del patetico e riuscì abilmente in quest’impresa. A rendere questo melodramma hollywoodiano un successo, contribuì anche il cast stellare: Lana Turner, la star dai capelli biondo platino abbandonò, le vesti della dark lady per indossare gli abiti di Lorna, una madre e donna qualunque capace, attraverso il sacrificio e la sola forza di volontà di realizzare i propri sogni; Sandra Dee interpreta Susy la figlia gelosa, ma “la fidanzatina d’America” non riuscì a conquistare e convincere con la sua performance il grande pubblico.
A sorpresa le candidature agli Oscar per le miglior attrici non protagoniste andarono a Juanita Moore e la giovane Susan Kohner che aveva già ricevuto il Golden Globe. Nessuna delle due però vinse l’ambita statuetta. Meno efficaci gli interpreti maschili, John Gavin, attore dal fascino latino nel pieno degli anni della sua carriera artistica impersona Steve, mentre il sex symbol Troy Donahueun ricordato soprattutto per esser stato una meteora, ha il volto di un angelo ma impersona il fidanzato violento di Sarah Jane. La fotografia di Russell Metty incornicia e valorizza ogni sequenza con colore ed eleganza, le musiche di Harry Mancini e Frank Skinner arricchiscono di phatos le avventure intricate e commoventi di questi personaggi, come si nota maggiormente nella scena del funerale con la canzone “Trouble of the world” cantata da Mahalia Jackson.
“Imitation life” è “Lo specchio della vita” della società americana degli anni ’50, con la sua violenza, l’odio razziale e i conflitti di classe.
Ma potrebbe anche far riferimento ad un aspetto superficiale e ipocrita del mondo dello spettacolo che il regista europeo conosceva molto bene, forse per questa ragione, poco dopo, fece ritorno nel vecchio continente. Lo psicanalista britannico Donald Winnicott affermava che “Il volto della madre è lo specchio della vita”, intendendo che l’amore materno è incondizionato e totale nei confronti del figlio, un sostegno capace di contenere le frustrazioni e angosce del bambino, ma allo stesso tempo in grado di vegliare su di lui e farsi da parte quando si accorge che la sua creatura può farcela da sola sperimentando la sua soggettività.
Le protagoniste di questa vicenda, non sempre sembrano rispettare questa regola. Lo sguardo che la prole ha nei confronti della figura materna è spesso un riflesso sconnesso, distorto, o visto alla rovescia. Lora, ad esempio, non si rende conto di quanto Susy sia sola ed innamorata del suo pretendente e quando capisce le sue mancanze sarà afflitta dai rimpianti e sensi di colpa; Annie la governante, invece, risulta soffocante ed incapace di lasciare libera Sarah Jane di scegliere come vivere la sua esistenza. E sarà questo suo egoismo a portarla alla tomba.
Ma cosa potrebbe spingere uno spettatore di oggi a recuperare questo film del 1959 che ad un primo impatto risulta antiquato e superato? Il suo titolo ad effetto potrebbe richiamare l’attenzione. Visionandolo forse si può scoprire che il contesto storico di quel periodo non è poi così lontano dai nostri giorni; il razzismo non si è mai estinto, ha assunto solamente nuove forme, basta guardarsi intorno per accorgersene.
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