“Mandami un segno, oh Signore. Io sono come il tuo servo, Mosè, solo che non sarò così a buon mercato.” (“Mank”)
Il bianco e nero sono colori? Se lo chiedessimo a uno scienziato ci direbbe che il nero non è un colore, mentre il bianco sì. Se invece fossero un artista o un bambino a rispondere, affermerebbero l’esatto opposto. In termini di frequenze di luce, il bianco è la presenza di tutti i colori ed è quindi un colore, mentre il nero è la loro totale assenza. In termini di pigmenti, d’altro canto, è il nero a contenere tutti i colori, col bianco che ne è privo. Il bianco e il nero sono opposti. Ognuno il rovescio della stessa moneta lanciata per aria che gira e rigira all’infinito fino a rovinare per terra, rivelando il suo volto fortunato. L’essenza della dea bendata.
Il bianco rappresenta il principio, come una pagina candida su cui iniziare a scrivere una nuova storia. Simboleggia la purezza e l’innocenza, la salvezza, la contemporaneità, la raffinatezza e la verità, donando sensazioni di pace e serenità. Il nero rappresenta la fine: è la negazione del colore. Si identifica con la morte, la perdita ma allo stesso tempo è il colore dell’eleganza. Forte e autoritario, ha sempre avuto una connotazione negativa e malvagia per la sua caratteristica fisica di assorbire la luce al 100% e di intrappolarla. Culturalmente si è venuta lentamente a formare la coscienza dei due colori come opposti. Un fulgido esempio lo troviamo nel simbolo del Tao: Ying e Yang si fronteggiano alla pari dalle loro posizioni di bianco e nero, di bene e male. Il nero rinchiude gli spazi, il bianco li apre.
Il bianco e nero, infine, sono cinema.
Un abbagliante rimando al passato. Un turbinio di emozioni che ci sovrastano, l’apologia del tributo più elevato ad un cinema che non c’è più, ma di cui spesso avremmo bisogno. Bisogna dare atto a Fincher di questo, nonostante il dualismo cromatico lungo tutta la durata tenda a sbiadire, tramutandosi in scale di grigio; metaforicamente parlando; che sostituiscono i due colori non colori sia nelle immagini sia nei contenuti. Ma ci ritorneremo, onde evitare critiche senza possibilità di una spiegazione.
Mank è un meraviglioso tributo al cinema passato.
Un’ode alla scrittura e alla bellezza della sceneggiatura, alla sua intricata potenza espressiva e intrinseca forza vitale. Scrivere è raccontare, raccontare è vivere. L’avvento del sonoro nel cinema porta con sé oneri ed onori che devono essere conservati ed innalzati. E chi più degli sceneggiatori può elevarsi a tal punto da decodificare un’arte che si affaccia a nuove vette, cambiandole pelle e trainandola verso una mutazione quasi genetica della struttura che la contiene? Herman J. Mankiewicz, Mank, da qui in poi. Sceneggiatore, giornalista e critico teatrale, è una figura controversa, dallo spiccato senso dell’umorismo, dalla fluida invettiva verso l’establishment che lo possiede e per conto del quale scrive e agisce, con seri problemi di alcolismo e gioco d’azzardo.
Combatte, almeno in superficie, e con le armi a lui più congeniali, un sistema che lo assorbe dalle fondamenta; che lo culla e lo accudisce nella bambagia, nell’epoca d’oro di un cinema ormai morto, che ne conserva i canoni al giorno d’oggi ingialliti, polverosi. Contattato da Orson Welles, giovane rampante che a soli 24 ottenne dalla RKO; una casa di produzione cinematografica statunitense facente parte delle cinque major tra gli anni 30 e gli anni 50; la totale libertà artistica per qualsiasi cosa voglia scrivere e trasporre su schermo, Mank, dopo un incidente in auto, trascorre la convalescenza in una casa in campagna scrivendo la stesura del film riconosciuto unanimemente come il migliore mai realizzato, quello che forse più di tutti ha mutato i connotati della storia del cinema, ossia Quarto Potere (Citizen Kane in lingua originale, o American nella sua prima stesura).
L’idea alla base è quella di prendere spunto da fatti realmente accaduti, che si riferiscono alla vita del magnate dell’industria del legno e dell’editoria William Randolph Hearst, e di trasporli su carta per creare un’opera che riesca a descrivere cosa realmente sia il potere dell’editoria e del controllo delle masse.
Chi ha visto Citizen Kane ovviamente avrà la strada spianata per la comprensione della pellicola di Fincher; che si basa sulla sceneggiatura scritta dal padre Jack negli anni ’90; che vuole raccontare, a suo modo e in maniera in parte artificiosa e romanzata, in parte veritiera ma attuando alcune modifiche storico-sociali. Come andò quel breve periodo della vita di Mank che lo portò in seguito a vincere l’Oscar per la migliore sceneggiatura originale in coabitazione con Orson Welles. Non è un biopic nel vero senso del termine. E non credo che Fincher volesse farci pensare che stesse raccontando solamente la vita di uno scrittore dimenticato riportandolo a galla dopo un’apnea di più di sessant’anni.
Fincher, a mio avviso, intende parlarci di una Hollywood che ancora porta sulla collina la dicitura HOLLYWOODLAND, che rappresenta la cosiddetta “età dell’oro” del cinema, la fabbrica dei sogni che prendono vita e la mitizzazione delle celebrità come esseri di culto, proiezioni divine in forma umana, e tutti i contrasti che avvolgevano – e tuttora avvolgono – un mondo per certi versi bianco e splendente, per altri nero, buio e tenebroso, utilizzando di riflesso le tonalità tipiche del noir che racchiudono dentro di esse parte delle contraddizioni di un’epoca. Fincher ci porta in dono uno spaccato socio-politico. Grosso modo simile a quello che stiamo vivendo al giorno d’oggi; omaggiando il passato mentre strizza l’occhio al futuro.
A tal proposito risultano di notevole fattura e pregio stilistico i rimandi al film da cui prende spunto, Quarto Potere, omaggiandone la tecnica registica con ampi campi larghi che denotano la grandezza di alcuni personaggi, e carrellate sferzanti che ne risaltano la vivacità caratteriale.
Notevole e di caratura elevata il montaggio che prende spunto dalle tecniche registiche apportate da Welles, che fanno dei flashback; o analessi; il pezzo forte e pregiato che eleva un comparto tecnico già sopra le righe.
Un risultato ottenuto grazie anche ai campi larghi e alle riprese dal basso (come nel dialogo-scontro in Citizen Kane tra Orson–Kane e il suo sottoposto Jedediah Leland, con riprese effettuate volutamente dal basso per porre in risalto la grandezza sia fisica sia caratteriale del magnate della comunicazione) e agli effetti di luce, abbagliante e fumosa, che filtra tra le vetrate e tra gli spazi che i personaggi sullo schermo lasciano tra di essi, con una fotografia eccelsa, sublime, che fa valere la potenza del digitale e delle nuove tecnologie, che catturano l’attenzione dello spettatore definendone i volti dei protagonisti con primi piani che in alcune scene si tramutano in pura poesia estetica.
Tutto questo, e molto altro, immergono lo spettatore nella vita dello scrittore statunitense, donandogli spaccati intimi di goliardia e solitudine tipici del “giullare” di corte.
Ma non è mia intenzione deridere il personaggio Mank, bensì condannare la dolorosa solitudine che un uomo nelle sue condizioni è costretto a portarsi dietro per tutta l’esistenza – nonostante la presenza silenziosa e fugace della povera Sara, moglie fedele e comprensiva, e della dattilografa Rita Alexander, che funge da figura materna per lo scrittore, aiutandolo nel suo percorso creativo che lo porta però inevitabilmente all’autodistruzione programmata. La messa in scena risulta pulita ed elegante, donando al film quel tocco di antico, di nostalgico, grazie ad un bianco e nero inizialmente molto affascinante, che perde però via via di magia, forse perché girato in digitale e non in pellicola, e forse perché sappiamo non essere vero, finendo per innamorarci della bellezza della carta da regalo e meno del contenuto del pacco. Nonostante nel complesso risulti gradevole e vada a segno dandoci la possibilità di guardare il film con occhi sognanti.
Meritevole di attenzione invece il sonoro.
Fedele ai film degli anni ’30/’40, con quel retrogusto ovattato, distante, caldo e protettivo, che ci culla durante i dialoghi, ci rassicura, ci emoziona, nonostante valga egual discorso per il colore: ci si abitua. Un Gary Oldman da vertigini, che riesce nuovamente a portarci in dono un’interpretazione camaleontica che lo annovera di diritto nell’Olimpo dei grandi artisti.
Tutto il cast, nonostante alcuni personaggi poco sviluppati – come ad esempio il fratello di Mank, Joseph, grande regista a cavallo degli anni 50/60/70, e Marion Davies, interpretata da una bellissima Amanda Seyfried incantevole nella sua bellezza quasi marmorea, candida ma stereotipata nella sua allusiva “ebetudine” e mancanza di talento per il ruolo che interpreta ma non per l’attrice che realmente è – è coeso e ben amalgamato, con prove attoriali buone ma non indimenticabili, tranne forse Tom Burke, l’interprete di Orson Welles, che appare poco ma lascia il segno gettando un’ombra su tutta la pellicola, portando lo spettatore a chiedersi quando lo rivedrà, e Charles Dance, che interpreta il magnate Hearst, magnetico e oscuro, dallo sguardo serafico e glaciale, meno wellesiano del Kane di Quarto Potere, che a conti fatti risulta una sua caricatura.
Potremmo persino dire, con tutte le precauzioni del caso, che il Kane di Quarto Potere non è l’Hearst di Mank – nonostante ci si ispiri per la stesura -, ma è Mank stesso a finire per essere il riflesso di Kane, imprigionato nel suo tagliente sarcasmo e nel suo alcolismo becero, l’alter-ego spirituale della Xanadu del capolavoro del ’41, che “ripara la gabbia da lui stesso costruita non appena vede un buco dal quale poter fuggire”.
La sceneggiatura è densa e ricca di contenuti, e non poteva essere altrimenti considerato che mira ad esaltare la figura del Mank sceneggiatore e scrittore di storie.
Ne scaturisce quindi un film con una sceneggiatura per una sceneggiatura, ricca di periodi sferzanti, dialoghi serrati ed invettive ad effetto che centrano il bersaglio in alcuni punti; meno in altri. L’aspetto politico viene accennato ma meno di quel che pensassi. Questo probabilmente rende Mank un film fruibile ai più, che non si perde in discorsi di propaganda partitica più di quanto richieda l’interesse del pubblico odierno, anche se personalmente avrei preferito uno sviluppo che mirasse ad aumentare la caratterizzazione politica presente in quegli anni, e che richiedesse uno sforzo in più per lo spettatore rispetto alle modalità sedentarie e spesso passive di interpretare i film. Parafrasando: se non lo capisco, vado oltre.
Ecco, per capire certi aspetti necessitiamo di soffermarci su di essi, e in alcuni punti il film non lo permette, o meglio ci si passa sopra pur sapendo che non è nella sua interezza fondamentale ai fini della trama. E’ un difetto? Dipende in parte dall’interesse del pubblico di riferimento, in parte dal regista che decide se porre in atto un meccanismo di pensiero o mira ad anestetizzarlo. Né l’uno né l’altro nella misura finale, seppur riconoscendo che nella maggioranza dei casi la riflessione nasce spontanea. E questo è un bene.
La figura personale e intima di Mank, invece, viene raccontata a dovere se consideriamo la bestia dell’alcolismo che lo stritola, meno bene se prendiamo in esame il gioco d’azzardo. Ciò che ne scaturisce è la narrazione di una personalità debole. Armata di ironia e satira per mascherare una volubile mancanza di potere verso se stesso in primis. Che ama battagliare verbalmente uscendone spesso vincitore, ma perdente nei momenti clou. Emblematico, in tal senso, lo scontro-diverbio nel finale con Hearst, che prova un affetto particolare per il Mank oratore; meno per il Mank scrittore; il quale, in preda ai fumi dell’alcool, inveisce contro di lui con una storiella che lo equipara al Don Chisciotte che combatte contro i mulini a vento, vomitando parole che sembrano bordate e che centrano perfettamente l’obiettivo, ossia ferire nell’animo un vecchio miliardario che di animo, si pensa, non ne possieda una goccia.
Al rigurgito verbale corrisponde, come una conseguenza naturale di quel che è appena andato in scena, quello fisico, come una sorta di purificazione, di mano divina che poggia sulle viscere dello scrittore rimettendolo al mondo e donandogli nuova linfa.
La conclusione è ovvia.
Mank è un ottimo film. Guarda al futuro facendo leva sulla protezione delle armature di un passato lucente, che si adoperano affinché niente e nessuno possa scalfirlo grazie al loro essere inviolabili, considerato che riprendere certi temi di quegli anni appoggiandosi alla figura di un film che continua a fare la storia, e di cui è difficile trovare difetti notevoli, risulta un’ottima mossa nostalgica, che va da sé strizza l’occhio ad un pubblico ampio e ai sentimenti sopiti, mirando al loro risveglio.
La figura di Welles si potrebbe pensare sia stata messa in cattiva luce; e in parte può essere vero se consideriamo la sua personalità poco accomodante e spigolosa. Ma d’altro canto non dobbiamo mai dimenticare le innovazioni che Orson apporta alla cinematografia. E, di riflesso, è sempre importante sottolineare quanto la scrittura sia decisiva ai fini di un racconto, e di come le due cose -regia e sceneggiatura- debbano necessariamente andare di pari passo, elevarsi sullo stesso piano, sedersi allo stesso tavolo e coadiuvarsi nel segnare le sorti di un’arte, la settima, che mai come in questo momento necessita di sogni e realtà, di storie e verità, di menzogne e certezze, di spinte e di traini, di odio e d’amore, del bianco e del nero.
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