“My Policeman”, in esclusiva su Prime Video dal 4 novembre 2022, è la storia di un singolare triangolo amoroso. La pellicola, in cui la pop star Harry Styles interpreta il suo secondo ruolo da protagonista, sarà stata all’altezza delle aspettative?
L’omosessualità è da sempre una delle tematiche più delicate e complicate da raccontare, specialmente quando si tratta di metterla in scena su pellicola. Spesso infatti le storie a tema LGBTQIA+ rischiano di risultare fin troppo banali, scontate o offensive nei confronti di una comunità che, nel corso dei decenni, ha dovuto affrontare (e purtroppo dovrà ancora affrontare) moltissime angherie, ostacoli, ingiustizie. Eppure, nel corso degli anni di storia del cinema, ci sono state opere che hanno saputo raccontare storie d’amore tanto intense quanto profonde, senza tralasciare l’importanza fondamentale del contesto storico in cui esse venivano narrate.
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“Maurice” per esempio, pellicola diretta da James Ivory e ambientata nella Londra dei primi decenni del 1900, racconta i tormenti di Maurice Hall.
Il giovane rampollo di Cambridge dovrà fare i conti con i primi tormenti amorosi. E, allo stesso tempo, dovrà fronteggiare i pregiudizi di una società che considerava l’omosessualità un atto ignobile, privo di sensatezza. O peggio, una “malattia” in grado di contagiare le menti più “pure”, e un crimine punibile con la reclusione.
Grazie alla maestria di un regista navigato nel genere drammatico, e la lancinante e fortemente sensibile interpretazione di James Wilby, “Maurice”, la pellicola presentata a Venezia nel 1987, tratta dall’omonimo romanzo di E. M. Forster, riuscì nel difficile compito di narrare una storia coinvolgente che mettesse in mostra quanto può essere straziante dover celare la propria natura.
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Qualche anno più tardi, invece, fu Ang Lee con “I segreti di Brokeback Mountain”, tratto dal racconto “Gente del Wyoming” di A. Proulx, a portare sul grande schermo la storia d’amore proibita tra Ennis Del Mar e Jack Twist (rispettivamente Heath Ledger e Jake Gyllenhaal). Doloroso, straziante ed estremamente toccante, “I segreti di Brockeback Mountain” segnò una svolta nell’era cinematografica. Il film mise in scena l’amore passionale e il desiderio carnale tra due uomini in una Hollywood che aveva prepotentemente censurato il mondo dell’omosessualità.
Altro esempio calzante di quanto possa essere penetrante una storia ben raccontata è “Carol”, pellicola diretta da Todd Haynes nel 2015 con protagoniste Cate Blanchett e Rooney Mara e tratta dall’omonimo romanzo di Patricia Highsmith. Una bellissima storia d’amore raccontata attraverso interpretazioni raffinate quanto sublimi. In un tumulto di sguardi passionali e colmi di desiderio tra Carol e Therese, due donne di ceto diverso si innamorano in un’America degli anni ’50 colma di pregiudizi.
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Invero, come abbiamo scritto in apertura, ci sono opere in grado di trasmettere e trascinare lo spettatore attraverso l’intensa e travolgente storia d’amore messa in scena sullo schermo e allo stesso tempo narrare le innumerevoli difficoltà che essa è costretta ad affrontare, portando lo spettatore a provare un forte sentimento di empatia nei confronti della storia e dei suoi protagonisti. Ebbene, “My Policeman”, secondo il nostro parere, non è una di queste.
Tratto dal romanzo di Bethan Roberts e diretto da Michael Grandage, “My Policeman” narra le vicende legate ad uno strano triangolo amoroso. Un triangolo formato da Marion Taylor (Emma Corrin/Gina McKee), un’insegnante di scuola elementare, suo marito Tom Burgess (Harry Styles/Linus Roache), un poliziotto in carriera intenzionato (apparentemente) a migliorare se stesso, e l’amante di Tom, Patrick Hazlewood (David Dawson/Rupert Everett), un artista amatoriale nonché colto curatore di un importante museo.
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Tralasciando le pagine del romanzo di Bethan Roberts che non abbiamo avuto occasione di leggere per comparare le due opere, ci limiteremo a “dire” la nostra sulla pellicola di Michael Grandage.
Tra flashback e salti temporali, il tutto si sviluppa su due linee diverse.
Quella dell’Inghilterra degli anni ’50, in cui l’omosessualità era ancora considerata un crimine punibile con la reclusione forzata. E gli anni ’90, quando Marion, ormai anziana, decide di accogliere in casa Patrick e di accudirlo a seguito di un ictus. Nel mentre Tom, inspiegabilmente, si tiene a distanza dal suo ex amante.
Tralasciando la buona fotografia, che riesce a ritrarre in maniera gradevole la Brighton degli anni ’50, i cui moti ondosi richiamano i quadri di William Turner, più volte citato nella pellicola, e la cui percezione dovrebbe in qualche modo far breccia e risvegliare determinati sentimenti nei protagonisti, che dovrebbero lasciar spazio all’ira, al desiderio, o quantomeno alla mancanza dell’altro, si limitano, invece alla quietezza o trovando una piccola dose di espressione, nella propria solitudine, i pregi di “My Policeman” sono veramente pochi.
Quella che avrebbe potuto essere una storia tanto profonda quanto toccante, se ben sviluppata, si perde invece nell’incoerenza e nel nonsense.
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Il tutto ancora prima di riuscire a coinvolgere il pubblico, complice una sceneggiatura che non approfondisce a dovere le dinamiche di una relazione considerata “innaturale” per l’epoca e una caratterizzazione fin troppo superficiale che non trasmette a dovere alcuna empatia verso i personaggi principali. Questi, al contrario, risultano detestabili per la maggior parte del tempo. Siamo molto lontano infatti dalle pellicole citate in precedenza.
Lontani da quegli appassionati scambi di sguardi, da quell’ardente desiderio e da quella sofferenza dettata dall’assenza o dalla morte che hanno contraddistinto così tanto le pellicole di Todd Haynes, Lee e Ivory, e da quella rappresentazione di una società tanto puritana e crudele nel giudicare il prossimo in cui l’individuo era costretto a celare la propria natura.
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Difatti, per quanto il “Maurice” protagonista dell’omonima pellicola soffrisse la lontananza dal suo amato Clive e riuscisse a comunicare tutto il suo dolore e il suo bisogno di essere amato, consolato e adorato, quella di Tom, Patrick e Marion è una storia che non tocca abbastanza l’anima, perché ne è priva. E, probabilmente perché quel poco che ci viene rivelato sui sentimenti che Tom e Patrick condividono, viene automaticamente sovrastato da un pesante senso di egoismo nei confronti di una giovane e inspiegabilmente intollerante Marion (vedi la vacanza a Venezia) e da anni di inspiegabile silenzio tra Tom e Patrick, colmi da un altrettanto inspiegabile rancore.
L’amore tra i due amanti che avrebbe dovuto rivelarsi il punto cardine della storia, viene quindi assorbito da una risoluzione giuridica e da una confessione così tanto priva di pathos che lo spettatore viene quasi condotto a sostenere, se così la si vuole chiamare, la “parte sbagliata”, anche se in realtà è la parte lesa della storia, in quanto Marion viene soggiogata dal fascino di Tom.
Anche la stessa rappresentazione giuridica non è chiara, perché Tom avrebbe dovuto subire, secondo le leggi in vigore all’epoca, lo stesso supplizio di Patrick.
E quindi Tom si rivela essere ancora più egoista.
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Come avviene invece nel film degli anni ’80, “Maurice”, in cui Clive (Hugh Grant), spettatore al processo del suo collega, ritenuto colpevole di “oscenità” e condannato non solo al carcere ma a essere privo del titolo nobiliare, riesce a comunicare, e quindi si fa portavoce della paura che tormentava le menti ritenute colpevoli all’epoca (inizi del ‘900). Clive riesce a comunicare il terrore che chiunque provava dentro di sé e l’umiliazione pubblica che avrebbero dovuto sopportare se scoperti. E quindi Clive di conseguenza, sacrifica il suo amore per Maurice.
Ma le incongruenze in “My Policeman” non sono finite qui.
Negli anni ’50, chi viveva e quindi non nascondeva la propria identità sessuale, uomo o donna che fosse, stava bene attento a non rivelare la propria natura a nessuno per timore non solo di essere condotto davanti ad un giudice, ma di perdere il proprio lavoro o essere emarginato dalla società. Quindi, non stona un po’ che l’amica e collega di Marion le riveli di essere gay subito dopo che la stessa Marion ha definito “innaturale” il rapporto omosessuale?
Siamo quindi lontani da quelle atmosfere tra passione e desiderio. Tra urla di rimpianto e assenza, lacrime e sospiri mai pronunciati, cui il cinema nelle sue più importanti trasposizioni ci ha abituati.
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In “Carol”, Therese sofferente per non riuscire né a vedere il suo amore né a sentire la voce di Carol, ma solo il suo respiro dall’altra parte della cornetta, ci connette con una realtà appartenente al passato che noi facciamo fatica a comprendere e che, di conseguenza, contribuisce a incrementare la speranza in un loro ricongiungimento. Per non parlare della straordinaria colonna sonora diretta da Carter Burwell, che diviene protagonista assieme alle due donne all’interno della pellicola. Elemento, invece, poco rilevante in “My Policeman”.
Siamo quindi testimoni di 113 minuti (o quasi) di insensatezza. La risoluzione finale, oltre che estremamente sbrigativa, non approfondendo abbastanza non solo i sentimenti di Tom che si rivela essere ancora più detestabile che in gioventù, ma il folle amore che lo legava e lo lega tuttora a Patrick, risulta essere insopportabilmente fredda. Quasi quanto la Brighton anni ’90 che ci viene presentata. Solo il finale emerge, in mezzo ad una marea di parole non dette, in cui i due amanti finalmente si ricongiungono, protagonisti di un gioco registico in cui il “ritratto” di Tom e Patrick in posa davanti al riflesso di una finestra e amareggiati dal tempo trascorso distanti l’uno dall’altro, in quella che, probabilmente, voleva essere un omaggio a quell’arte che loro tanto amavano e a quel ritratto che così tanto li unì in passato.