Dalla quarta di copertina di “Per il mio bene” cito:
“Ema Stokholma è lo pseudonimo di Morwenn Moguerou. Nata in Francia alla fine del 1983, scappa di casa a quindici anni per sfuggire agli abusi materni e si trasferisce in Italia. Inizia a lavorare come modella, ma lascia il mondo della moda per la musica e in poco tempo diventa una delle più importanti e popolari dj italiane. Nel 2017 vince Pechino Express, e comincia a seguire i grandi eventi musicali per la Rai: Festival di Sanremo; Eurovision Song Contest; e Brit Awards. Conduce su Rai 4 “Challenge 4”, “Stranger Europe”; e su Rai 1 il “Prima Festival”. Dal 2017 conduce con Gino Castaldo il programma “Back2Back” su Rai Radio 2.”
Inizio questo articolo con neutralità, riportando parole di terzi, per dare un’idea di partenza sulla vita della scrittrice del romanzo autobiografico di cui mi accingo a parlare.
“Per il mio bene” è un viaggio che trafigge il petto per l’immediatezza con cui è raccontato, e le tappe che attraversa sono raccontate ciascuna da un punto di vista differente: il primo sguardo è uno sguardo ancora bambino sul mondo, ingenuo, confuso e arrabbiato, e quello sguardo il lettore lo vede crescere, velocemente, fino a diventare quello di una donna.
Ema Stokholma ha raccontato in diverse interviste come il processo di scrittura del romanzo sia stato un percorso che l’ha vista scrivere di getto e senza filtri, senza una reale partecipazione emotiva, senza voler trascrivere sulla carta la sofferenza degli eventi raccontati. La scrittrice afferma di aver voluto portare nient’altro che una testimonianza, affinché eventi simili non capitino più, fermamente consapevole e convinta che la stesura del testo non sia stata l’esorcizzazione dei propri demoni, ma il ripercorrere una storia già vissuta e già accettata.
Tutto questo si percepisce chiaramente attraverso una lettura che scorre rapida, affannata, frenetica, appassionata.
Ema Stokholma racconta gli abusi subiti da parte della madre. I desideri repressi e sottaciuti di bambina. Il terrore, il continuo desiderio di scappare e ricominciare da capo, attraverso un linguaggio che non giudica, e che anzi accetta la realtà della propria vita, così com’è stata. Racconta la difficoltà di affrontare un percorso terapeutico, la diffidenza, il timore di raccontare la propria storia. Numerosi professionisti hanno dovuto alternarsi durante la crescita della piccola Morwenn, prima di riuscire ad aiutarla davvero a raggiungere una consapevolezza tale da accettare quello che è stato.
Quella che viene raccontata non è una storia di rancore, ma di accettazione. È una storia tragica raccontata senza tragicità, lontana da quel fenomeno raccapricciante quanto umano che chiamiamo pornografia del dolore. Non c’è alcuna intenzione di suscitare compassione, anzi, il linguaggio utilizzato è lontano anni luce da quel modello tipico dei media che strumentalizza le “storie difficili”, riducendo fenomeni culturali e complessi ad eccezioni, rarità, con parole troppo semplici e banalizzanti.
È troppo semplice raccontare una storia di violenza minorile, di abusi, in termini di “innaturalità” e “bestialità”, cosicché chiunque possa sentirsi la coscienza pulita con il solo pensiero “a morte chi tocca i bambini”, perché attraverso questo atteggiamento si legittima un sistema di pensiero binario che non accetta alterità, che vede soltanto buoni e cattivi, quando la realtà è decisamente più complessa.
Arrivando appena a pagina 23 la figura della madre inizia a problematizzarsi e viene mostrato l’essere umano dietro il mostro.
Si parla di una donna che non riesce a dormire dopo aver ucciso accidentalmente una biscia. Una donna cresciuta con in casa un padre violento, abbandonata dal padre dei propri figli. La scrittrice stessa, pur affermando di non averla perdonata per la violenza quotidiana che per anni ha riservato a lei e al fratello maggiore, riconosce la necessità che la madre avrebbe avuto di un aiuto, di un supporto psicologico, e offre a una storia tragica la complessità che le appartiene di diritto.
Fino a che punto la sofferenza che viviamo nella nostra storia personale può allontanarci dall’amore, dalla felicità, dal benessere? Fino a che punto il male che abbiamo subìto nella nostra vita può giustificare le nostre azioni? Oppure, andando ancora più indietro, può farlo?
Qui siamo di fronte ad una sofferenza che si autoalimenta, che da subìta diviene inflitta, e passa tra le fasi della frustrazione e della rabbia, senza cambiare mai la propria sostanza.
Quelli che chiamiamo mostri seguono una propria morale. Una propria logica nei comportamenti. Un proprio senso di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Una donna che uccide accidentalmente una biscia e sta male per giorni per questo, come può far male alla figlia senza pensare di comportarsi rettamente? Andando ancora più in profondità, l’essere umano ha una natura di per sé coerente?
Insomma, “Per il mio bene” di Ema Stokholma è un libro che colpisce per la verità di cui è intriso, pura, limpida. È un libro che lascia aperte molte questioni e che dà modo di porsi delle domande importanti. Quanto siamo complesse noi persone. Quanto bisogno c’è di raccontarsi per essere semplici testimoni della propria esperienza, non vittime da compatire, non mostri da biasimare, ma persone all’interno di una comunità soggetta a una data cultura. Quanto l’assistenza sanitaria, il supporto psicologico e l’educazione emotiva dovrebbero essere strumenti messi a disposizione di tutte e tutti. Siamo di fronte a quello che potremmo chiamare un atteggiamento narrativo totalmente aperto alla comprensione e all’accoglienza di ciò che è stato, senza esserne schiacciato e senza sentirsi costretto al perdono.
La seguente edizione è stata pubblicata da Harper Collins Italia.