“Pinocchio”, la fiaba di Carlo Collodi del 1883, ha subito numerose trasposizioni. Lo sceneggiato di Luigi Comencini, la pellicola di Matteo Garrone e, in fine, la rivisitazione di Guillermo del Toro. Ma la pellicola del regista Premio Oscar sarà stata all’altezza delle aspettative??
Chi è la figura dell’autore?
L’autore, nel mondo della letteratura, è colui che, grazie al proprio genio, riesce a creare opere scritte in grado di influenzare generazioni e generazioni di artisti e di raccontare storie che riescono ad affrontare tematiche che, nonostante lo scorrere inesorabile del tempo, risultano sempre dannatamente attuali.
È il caso di Carlo Collodi, scrittore fiorentino, che nel 1883 pubblicò “Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino”, una fiaba che raccontava le esperienze, a metà tra il comico e il tragico, di un’irriverente marionetta animata il cui desiderio era quello di diventare un bambino in carne e ossa.
Quella di Pinocchio difatti è una favola che, dopo più di un secolo dalla sua prima pubblicazione, riesce ancora a influenzare milioni di lettori poiché.
Oltre alla morale più esplicita secondo cui i cattivi bambini finiscono sempre nei guai, riesce ad affrontare temi tanto importanti quanto attuali. Tematiche come il bullismo, lo sfruttamento minorile e la ricerca continua di identità. Ma è altrettanto vero che l’importanza di una storia si misura anche grazie alla capacità di essere riadattata e reinterpretata nel corso del tempo senza però essere snaturata. Basti pensare alle numerose fiabe e leggende che, nel corso dei secoli, sono state riadattate di voce in voce, senza però perdere di valore.
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Un autore infatti non è solo e semplicemente l’ideatore di un’opera.
L’autore è colui che, senza privarla della propria anima, riesce a cogliere l’essenza di una storia per poi offrirne una propria interpretazione, mantenendo quella morale e quel messaggio che hanno reso celebre la storia originale. Tanto è vero che, la fiaba di Pinocchio è stata fonte di ispirazione per molte trasposizioni (soprattutto cinematografiche). La versione edulcorata e puerile targata Disney (1940) per esempio. O la più fedele e cruda pellicola di Matteo Garrone, con Roberto Benigni nei panni del falegname Geppetto. Tuttavia, per quanto entrambi i lavori riuscirono a cogliere l’attenzione del pubblico cui erano mirate, peccavano forse di originalità, sebbene fossero caratterizzate sia dalla gioia bambinesca della Casa delle Idee sia dall’estetica inconfondibile del regista tre volte vincitore del prestigioso David di Donatello.
Originalità che sicuramente non manca al “Pinocchio” di Guillermo del Toro.
L’ autore messicano infatti, grazie alla sua singolare forma, è riuscito ad offrire un punto di vista diverso del romanzo di Carlo Collodi. Una ricerca di originalità tale da arrivare a reinterpretare il famoso romanzo di Collodi. Tanto da dividere il pubblico, e accusare così il “Pinocchio” di del Toro di non essere fedele all’opera originaria.
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E questa originalità può essere apprezzabile?
Quando finalmente ci troviamo davanti ad un prodotto ben realizzato, sebbene possegga una propria identità, chiniamo la testa denunciandone l’ennesima trasposizione cinematografica di cui, ovviamente, ci vorremmo lamentare a prescindere per una mancanza di originalità, oppure ne vogliamo apprezzare e analizzare il contenuto?
Girato interamente grazie alla tecnica della stop–motion, o animazione a passo uno, “Pinocchio” di Guillermo del Toro si ambienta in quella grigia Italia dei primi decenni del ‘900, quando l’intero paese era tenuto sotto scacco da Benito Mussolini e dal regime fascista. Affidando la narrazione al Grillo Parlante, che qui prenderà il nome di Sebastian J. Cricket (doppiato da Ewan McGregor), un elegante e colto aspirante scrittore, il regista Premio Oscar confeziona un prodotto tanto riflessivo quanto maturo. Una pellicola in grado di commuovere, appassionare e coinvolgere, senza rinunciare a quella morale , legata alla crescita personale, allo sfruttamento minorile e alla ricerca del proprio posto nel mondo già affrontata da Collodi, che si adatta perfettamente all’universo e all’estetica di del Toro.
Guillermo del Toro infatti prende la saggia e più che comprensibile decisione di stravolgere alcuni elementi caratteristici della fiaba pubblicata nel 1883.
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Il regista adotta alcuni accorgimenti che ai più fedeli al romanzo di Collodi probabilmente non piaceranno. Oltre ad inserire all’interno della pellicola due bellissime creature mistiche, lo Spirito della Vita e della Morte in grado di donare e togliere la vita (entrambe doppiate da Tilda Swinton), sostituendo così la figura della Fata Turchina, coglie l’occasione di introdurre un personaggio come il Conte Volpe (Christoph Waltz) che, in questo caso, impersona sia l’astuto opportunismo della Volpe che l’avidità priva di scrupoli del Mangiafuoco disneyano (ricordiamo infatti che il Mangiafuoco del romanzo di Collodi era un personaggio dal cuore buono), aggiungendo così maggiore personalità alla storia, fino a renderla unica nel suo genere.
La pellicola si apre in maniera inaspettata.
Grazie ad una sequenza tanto bella quanto nostalgica, del Toro ci dà prova (finalmente oserei dire) di quanto possa essere profondo il legame tra padre e figlio. Mettendo inoltre in scena tutta la fragilità del buon Geppetto. Difatti, una delle più grandi differenze tra il romanzo e il “Pinocchio” di del Toro è racchiusa proprio nel rapporto tra l’anziano e squattrinato falegname e il suo figlioletto di legno che risulta essere molto più profondo e intenso, sebbene in un primo momento Geppetto si senta intimorito da quello strano bambino di legno, che, improvvisamente, si presenta davanti ai suoi occhi.
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È grazie a questo piccolo e, forse per molti, “irrilevante” dettaglio, che il film trova la sua vera e vibrante ispirazione, e probabilmente, il vero perno su cui ruota il film.
Ed è difatti la grande caratterizzazione di ogni personaggio e l’evoluzione dei loro rapporti uno dei maggiori pregi della rivisitazione di del Toro. Perché è proprio di rivisitazione a cui ci si riferisce. Del Toro, ha coraggiosamente, come ogni vero artista che si rispetti, cambiato le carte in tavola senza però sovvertire le regole. Ha donato non solo una reinterpretazione, seguendo maniacalmente nel corso di quindici anni di lavorazione ogni piccolo o grande cambiamento suggerito da esigenze di sceneggiatura, ma lo ha fatto proponendo al grande pubblico, probabilmente, una delle migliori e più intense versioni del “Pinocchio” di Collodi. Merito di una sceneggiatura scritta a quattro mani con Patrick McHale, “Pinocchio” di del Toro è una delicata fiaba dark sulla coscienza di sé e del mondo circostante. Il tutto proiettato nell’epoca dell’Italia fascista.
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Pinocchio, personaggio che del Toro ha reso meno irritante rispetto al burattino di Collodi e della trasposizione di Garrone, qui subisce una forte crescita emotiva. Il burattino prenderà lentamente coscienza di sé ponendosi, passo dopo passo, domande fondamentali sulla sua esistenza, agevolate dalla perfidia dell’uomo.
La malvagità dell’animo umano si assapora quindi fotogramma dopo fotogramma, coerentemente con lo stile di del Toro, e dal messaggio che egli vuole trasmettere, il quale non risparmia un’amara e per nulla velata critica alla chiesa. Perché gli altri non mi accettano?
Quindi, perché, considerata la crudeltà dell’essere umano, Pinocchio dovrebbe aspirare a diventare un bambino vero?
Così comincia il viaggio del burattino senza fili di Guillermo del Toro. Un viaggio che, pur commettendo qualche inevitabile errore, lo porterà a creare un legame che mai fu così profondo con suo padre Geppetto. E a instaurare un rapporto di amicizia sia con la scimmia Spazzatura (personaggio originale creato da del Toro, il cui doppiaggio è stato affidato a Cate Blanchett) che con Lucignolo, qui totalmente diverso dal monello descritto da Carlo Collodi.
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Due personaggi che, oltre a respirare le ombre di un fascismo sempre più dominante, subiranno i soprusi del Conte Volpe e del Podestà. Quest’ultimo, come “l’Omino di Burro” descritto nelle pagine di Collodi intento ad accompagnare i bambini desiderosi di beni materiali e nella perdizione dell’avidità, condurrà, invece, ogni bambino in un Paese dei Balocchi totalmente diverso dalla versione originale: un campo di addestramento per giovani Balilla.
La morale è quindi immutata.
Benché si parli di beni materiali nel primo caso, nel film di del Toro acquista un significato, probabilmente, ancora più profondo. Collegando il tutto con una figura caricaturale di Mussolini che esordisce con “gradisco i burattini”, frase inevitabilmente associata ad un sistema fascista che manovrava le masse, come marionette accondiscendenti.
Il tutto accompagnato da paesaggi suggestivi, e una bellezza architettonica che trova la sua concentrazione sui particolari, sulle imperfezioni di ogni palazzo usurato dal tempo e sull’armonia degli affreschi presenti all’interno della chiesa e risalenti al XV e al XVI secolo. Un importantissimo plauso va all’estetica di ogni singolo personaggio. E a una cura del dettaglio che ha contraddistinto una produzione che si è distinta per la sua originalità, guadagnando la migliore squadra creativa nel settore della stop-motion. Dalle rifiniture degli abiti (pieghe, bottoni), alle pieghe dei volti, in un’animazione fatta a mano che assorbe elementi artigianali in perfetta armonia tra di loro: dall’intaglio alla pittura, scultura.
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In conclusione, Guillermo del Toro, grazie al suo “Pinocchio”, è riuscito a rispondere ad un paio di domande cruciali.
È possibile adattare, secondo il proprio estro creativo, una storia che, dopo più di un secolo, è stata rappresentata in varie forme e versioni? E, soprattutto, era necessario riproporre l’ennesima trasposizione di “Pinocchio”?
Dopo il deludente live action targato Disney, diretto da Robert Zemeckis, altro grande autore in grado di donare al mondo film come “Forrest Gump” e “Ritorno al futuro”, in molti avrebbero pensato che la favola del burattino senza fili fosse ormai destinata a non offrire più niente al pubblico. Ma questo perché. Non basta solo riprodurre in maniera più che fedele l’opera scritta, com’è successo infatti con lo sceneggiato televisivo di Comencini, oppure la più recente versione di Garrone. Guillermo del Toro ha dimostrato di saper creare e incuriosire. E, soprattutto, sensibilizzare un contenuto rendendolo attinente anche con il suo pensiero (da qui il titolo “Pinocchio di Guillermo del Toro). Ma soprattutto, del Toro ha dato prova che il “Pinocchio” di Collodi può ancora essere una storia in grado di continuare ad ispirare, creare e, soprattutto, di far sognare.