“Pulp Fiction” fece la sua entrata in scena vincendo la Palma d’Oro al Festival di Cannes nel 1994. Da quel momento, nel mondo del cinema, c’è stato un prima e un dopo “Pulp Fiction”.
Agli albori degli anni novanta, un giovane produttore di nome Lawrence Bender, venne invitato ad una festa da un suo caro amico, Scott Spiegel. Questi, tra una stretta di mano e l’altra, decise di fare una cosa che avrebbe definitivamente e innegabilmente, cambiato la storia del cinema. Spiegel presentò a Bender un certo Quentin Tarantino, che all’epoca era un semplice commesso di un noleggio di VHS (bei tempi gli anni ’90!).
Qualche mese più tardi, i due si incontrarono nel modesto appartamento del futuro regista di “C’era una volta a… Hollywood”, dove stava lavorando ad una nuova storia che avrebbe intitolato “Le Iene”.
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Tarantino, all’epoca, aveva venduto la sceneggiatura di “Una vita al massimo” a Tony Scott per 50.000 dollari, ma non erano ancora abbastanza per il suo nuovo progetto. Ardentemente intenzionato a portare in scena la sua storia, che si rivelò in seguito essere un gangster movie incredibilmente verboso, ma colmo di scene che avrebbero contribuito a fare la storia del cinema, oltre che a diventare iconiche (vi ricordate la presentazione delle iene? Oppure l’iconica danza di Mr. Blonde?) chiese quindi a Bender di trovare i fondi necessari per produrre il suo primo film da regista. I due scrissero quindi un contratto, a mano, su un semplice foglio di carta, e lo firmarono. Pronti più che mai a imbarcarsi in questa nuova avventura.
E decretò, ufficialmente, l’inizio della carriera da regista di Quentin Tarantino. E pensate un po’. Quel semplice commesso due anni più tardi, avrebbe vinto la prestigiosa Palma d’Oro al Festival di Cannes. Sebbene tutti, compresi Tarantino e Bender, fossero convinti che il riconoscimento sarebbe andato a “Film Rosso” di Krzysztof Kieślowski. E invece, contro ogni pronostico, il presidente della giuria Clint Eastwood annunciò che il vincitore era proprio “Pulp Fiction”.
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Un film che, a detta dello stesso leggendario attore, aveva coinvolto e scosso i membri della giuria fin dalla prima scena. Tarantino salì quindi sul palco del Palais des Festivals accompagnato da Bender e dai membri del cast. Mentre Bruce Willis esultava abbracciando John Travolta. Fatto piuttosto curioso considerato che nella pellicola uno è l’assassino dell’altro. Ma vabbè, son dettagli.
Quentin Tarantino, emozionatissimo e anche leggermente impacciato, salì quindi sul palco a ritirare il prestigioso premio con Kathleen Turner pronta a consegnare la Palma d’Oro al regista.
E un uomo come Tarantino, come avrebbe potuto rispondere a tale provocazione se non con una risatina ironica e un bel dito medio alzato?
Ma parliamo del tanto chiacchierato Pulp Fiction.
Narrazione non lineare, dialoghi iper-realistici e logorroici e una colonna sonora così travolgente pescata direttamente dalla collezione di dischi del regista e divenuta iconica nel corso dei decenni. Basti pensare a “Misirlou” che apre il film con Zucchino e Coniglietta pronti a derubare una tavola calda. Oppure l’iconica scena del Twist con la musica di “You Never Can Tell”. Un Pulp Movie con scene pulp che hanno contribuito a fare la storia del cinema Pulp. Anzi, la storia della cultura Pop.
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Vogliamo ricordare “Sono il signor Wolf, risolvo problemi”? Oppure la famosa inquadratura alla scena nella bauliera? Tutte scene che hanno contribuito a identificare Tarantino come un regista il cui stile è tuttora imitato, grazie allo “stile tarantiniano” e come un autore da molti imitato, come lui stesso ha fatto e fa ancora oggi nei suoi tributi al cinema italiano (8 e ½ di Fellini) e al cinema Noir di una volta “Un bacio e una pistola” (1955), dove nacque l’idea della valigetta.
“Pulp Fiction”, seconda opera di Quentin Tarantino, si presenta così al pubblico. Come un gangster movie decisamente atipico. Per Francis Ford Coppola i gangster o, meglio, i mafiosi, erano i membri di una ricca e temuta famiglia italo americana.
I gangster di Sergio Leone invece erano dei ragazzini cresciuti nella povertà e nella delinquenza divenuti poi uomini influenti e pericolosi.
Per il regista de “Le Iene” invece, i malavitosi sono uomini normali che, nonostante i loro sporchi traffici, vivono le stesse vite che conducono i comuni mortali. Per questo la sceneggiatura di “Pulp Fiction” risulta fin da subito, dalla prima battuta di Zucchino e Coniglietta, così tanto diversa dai gangster movie cui ci avevano abituato Coppola e Leone.
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Invero, se risulta praticamente impossibile immedesimarsi in personaggi come Michael Corleone o Noodles, i personaggi di “Pulp Fiction”, da Vincent Vega, il gangster di ritorno da Amsterdam costretto ad intrattenere (non in maniera intima) la moglie del suo boss, a Butch, il pugile che ha inconsciamente deciso di truffare proprio Marsellus Wallace, riescono a trasmettere una naturale empatia.
Questo perché non esiste sontuosità nella malavita descritta nel geniale mondo creato da Quentin Tarantino. Per quanto ben vestiti, minacciosi quanto basta e armati di pistola e carisma, Vincent e Jules devono comunque sbrigare i compiti più ingrati. E sottostare al volere del grande capo.
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Da recuperare una valigetta al portare a cena fuori la moglie del capo, Marsellus e, come due colleghi annoiati, prima di “entrare nei loro personaggi di killer spietati” si ritrovano a parlare di chi ha fatto cosa e quindi, di argomenti sostanzialmente futili.
Lo stesso Marsellus, l’imponente boss che, come Voldemort, dovrebbe infondere terrore solo a pronunciare il suo nome, non è altro che una vittima della società, oltre che di Maynard e Zed. Questi ultimi sono forse gli unici veri animi crudeli della pellicola datata 1994 nonché le uniche persone che, effettivamente, traggono piacere dall’infliggere violenza. Letteralmente in questo caso specifico.
Ed è forse proprio nella brutale scena della violenza perpetrata contro Marsellus Wallace che risiede l’anima di “Pulp Fiction”. Per quanto potente, o almeno è cosi che appare agli occhi di Vincent e Jules, il boss, un uomo ricco e potente ma che deve obbligatoriamente vivere ai margini della società, si ritrova ad essere vittima, suo malgrado, di un uomo che di tale società non è solamente parte ma è anche tutore.
Non a caso, Zed si presenta nell’antro del negozio di pegni, con la divisa da poliziotto, con tanto di distintivo. Difatti, in un mondo dominato da sicari e malavitosi, coloro che infliggono più violenza sono un poliziotto e il commesso di un banco dei pegni. Due persone che, teoricamente, dovrebbero essere al di fuori della spirale di violenza in cui dimorano i nostri protagonisti.
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La singolarità della sceneggiatura, scritta da Mister Tarantino, non riecheggia solo nei dialoghi, anche se bisogna ammettere che risiede del genio creativo in essi, grazie all’originalità dei contenuti e alla fierezza del Pulp, come richiama il titolo, ovvero alla narrazione dell’eccessivo, ma nella messa in scena della criminalità.
Il buon Quentin infatti riesce a rappresentarla in maniera estrosa, facendola sembrare come una farsa bambinesca se non casuale, come l’incidente capitato al povero Marvin. Ve lo ricordate vero?
È difatti la casualità a guidare la trama elaborata dal regista. Butch incontra per caso Marsellus prima della loro resa dei conti finale. E anche se Jules pensa sia stato un miracolo, è solo per pura fatalità che i proiettili sparati nell’appartamento di Brett non colpiscono lui e Vincent. Così come è un’accidentalità che Marvin si ritroverà… ehm… spappolato. Perché in una pellicola in cui è la malavita il grande protagonista della storia, quello del gangster appare un mestiere come un altro.