Un’approfondita analisi delle opere e dello stile di Raymond Carver, con particolare attenzione su “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore”.
Schietto, senza filtri che possano fare della realtà più di quello che è: questo è Raymond Carver, colui che viene considerato, nonostante il suo disaccordo, il maestro del minimalismo.
Bibliotecario, fattorino, impiegato di una segheria sono solo alcuni degli impieghi svolti da Carver prima di ottenere il successo come scrittore. Ma la passione per la letteratura e la scrittura lo seguì in ogni fase della vita, che purtroppo fu breve e durante la quale dovette anche affrontare il problema dell’alcolismo. Il successo si fece attendere ma arrivo prorompente nel 1981, con l’uscita di una raccolta di diciassette racconti intitolata “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore”.
Racconti di una cruda, banale ma vera esistenza quotidiana
Oltre alla sua narrativa breve, ciò che colpisce dei racconti di Raymond Carver è il fatto che i protagonisti non siano i soliti a cui la letteratura americana di élite ci ha abituato. Scrive di gente comune, di cui lo stesso scrittore sente di far parte. Gli individui sono immersi in una vita di provincia banale, fatta di abitudini semplici. Vivono tutti una sensazione di vuoto e di perdita. Ciò che li accomuna è l’attesa di qualcosa, che può anche assumere i tratti della catastrofe. Nella raccolta ci sono coppie, famiglie, amanti, spesso alle prese con problemi economici o di alcolismo. I racconti di Carver sono lampi di onestà di un’umanità che affronta i drammi più comuni.
Anche lo spazio domestico acquista importanza, diventa un’essenza viva esso stesso. È rivelatore di verità nascoste, di non detti e dell’implacabilità del tempo. Ogni oggetto contribuisce a esprimere il disagio interiore dei personaggi.
Attraverso un percorso tra storie diverse, personaggi diversi e “tipi” di amore diversi, Carver cerca di andare in profondità, di scoprire l’amore come è vissuto realmente, nella vita di tutti i giorni. È un sentimento senza eccessi, non immacolato, spesso sfibrato dalla quotidianità. Le banali pause di vita diventano il tema di questa raccolta. Come se si sbirciasse dalla finestra la vita di un altro, Carver, grazie ai dialoghi e ai gesti, racconta al lettore ciò che accade, senza finali definitivi e senza risposte, lasciando che la scena si esprima autonomamente. Nei suoi racconti le cose sono quasi sempre già accadute. I finali sono troncati, taciuti, perché superflui. Il presente resta sospeso. Tutto sembra non avere senso, finché non arriva quella frase, quell’espressione, quel gesto che risvegliano delle intuizioni. Non è necessario che le cose si risolvano.
Lo stesso Carver afferma: “io scrivo di persone a cui non tornano i conti”. Il risultato è che il lettore resta spiazzato, turbato dall’insoddisfazione di non sapere e dalla cruda ma consistente realtà.
Ciò accade quando si legge della strampalata contrattazione tra un uomo che sta vendendo i propri mobili di casa e una giovane coppia in “Perché non ballate?”; o dei tentativi di un marito di farsi perdonare dalla moglie per un tradimento in “Gazebo”. L’inquietudine assale il lettore nel racconto “Mirino”, in cui un fotografo senza mani bussa alla porte di un uomo per vendergli delle foto della propria casa e di lui stesso; o in “Con tanta di quell’acqua a due passi da casa”, dove si racconta di un gruppo di amici che continua a pescare mentre nel fiume galleggia il cadavere di una donna; fino a “Di’ alle donne che usciamo”, in cui esplode la violenza di una coppia di amici verso due ragazze.
Molte le domande a cui il lettore non avrà risposta: che decisione prenderà una donna insonne il cui marito dormiente le ricorda delle “limacce” (“Riuscivo a vedere ogni minimo dettaglio”)? Come si concluderà la discussione fra due coppie ubriache su che cosa sia l’amore (“Di cosa parliamo quando parliamo d’amore”)? Che ne sarà di quel bambino tirato e conteso fra due genitori (“Piccole cose”)? Il pasticciere vedrà mai ritirata la torta del bambino investito da una macchina il giorno del suo compleanno (“Il bagno”)?
Inoltre lo spaesamento esistenziale, la paura della morte, il bisogno di essere amati, di essere salvati o semplicemente di comunicare sono espressi attraverso l’omissione. Si esclude tutto ciò che non è fondamentale enunciare.
“È difficile essere semplici. La lingua dei miei racconti è quella di cui la gente fa comunemente uso, ma al tempo stesso è una prosa che va sottoposta a un duro lavoro prima che risulti trasparente, cristallina. […]Scrivere è un processo di rivelazione” (Gigliola Nocera, L’America profonda di Raymond Carver, introduzione di Raymond Carver- Tutti i racconti, Meridiani Mondadori, 2005).
Raymond Carver, scrittore di successo grazie (o nonostante) Gordon Lish?
“Di cosa parliamo quando parliamo d’amore” non è solo la raccolta che ha reso noto al mondo il talento di Raymond Carver ma è anche quella che ha fatto nascere il dibattito sui confini dell’editing. Infatti sembrerebbe che quello stile minimalista e asciutto dimostrato dall’autore sia stato un po’ “forzato” dalle tante correzioni e tagli compiuti dal suo editor: il famoso Gordon Jay Lish. Fu una delle personalità più influenti di quegli anni e aiutò l’affermazione di diversi scrittori americani, tra cui Carver e Richard Ford.
Revisionando la raccolta “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore” Lish decise di tagliare fino a quasi il 70% dei testi dei racconti e cambiò molti titoli e finali. I dialoghi furono sfoltiti, alcuni personaggi vengono zittiti dalle forbici di Gordon Lish. I protagonisti diventano persone senza un passato, colti in media res, nel bel mezzo dell’azione. Diventano sonnambuli che si sorprendono nell’atto inconsapevole di agire.
Carver quel passato lo aveva immaginato e raccontato, ma Gordon Lish, da vero stratega editoriale, sapeva come rendere il suo autore una “star”. Le continue mutilazioni e semplificazioni servivano a “vendere” Raymond Carver come il profeta del minimalismo o postminimalismo hemingwayano.
Ma fino a che punto si può spingere un editor? Carver sarebbe diventato un autore di successo ricordato ancora oggi senza le modifiche apportate da Gordon Lish? A questa domanda può cercare risposta lo stesso lettore, leggendo la versione originale dei racconti, proposti dalla raccolta “Principianti”.
Le radicali revisioni subite furono sempre vissute con dispiacere da Carver. Se all’inizio si era adattato al minimalismo ricercato da Gordon Lish, successivamente, con l’uscita nel 1983 della raccolta “Cattedrale”, si distacca da quello stile che non gli apparteneva fino in fondo. Carver ha l’urgenza e la necessità di un’espressione più piena, di una linea narrativa meno scheletrica.
Con “Cattedrale” la scrittura di Carver cambia e i suoi racconti diventano più complessi, sia dal punto di vista delle tematiche che della forma.
“I racconti di questa raccolta saranno più pieni di quelli dei libri precedenti. […] Non sono lo stesso scrittore di prima. Però so che tra questi quattordici o quindici racconti che ti darò ce ne sono alcuni che ti faranno arricciare il naso, che non coincideranno con l’idea che la gente si è fatta di come deve essere un racconto di Carver – e per gente intendo te, me, i lettori in genere, i critici. Comunque, io non sono loro, non sono noi, sono io. Può darsi che alcuni di questi racconti non si adattino facilmente a starsene allineati in fila con gli altri, è inevitabile. Però, Gordon, […] non posso subire l’amputazione e il trapianto che in un modo o nell’altro servirebbero a farli entrare nella scatola, di modo che il coperchio chiuda bene“.
Il talento di Carver, nonostante il suo stile ritrovato, si mostrò in tutta la sua complessità e maturità in questa raccolta, tanto da far candidare “Cattedrale” al Premio Pulitzer.
“Tra il realismo rarefatto delle prime raccolte e il realismo visionario delle ultime si colloca dunque il cammino di Raymond Carver, e con esso una stagione estremamente significativa per la short story americana del Novecento. Egli è stato un grande narratore perché ha saputo trasgredire e sconvolgere ogni teoria, ed essere un fuorilegge in grado di scrivere nuove leggi. Ha cercato dei maestri, da John Gardner a Gordon Lish, per imparare a non seguirli, e ha saputo allargare i confini del realismo americano” (Gigliola Nocera, L’America profonda di Raymond Carver, introduzione a Raymond Carver- Tutti i racconti, Meridiani Mondadori, 2005).
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