«Nato per il bisogno irrinunciabile di raccontare agli altri, di fare gli altri partecipi». Così Primo Levi spiega il moto interiore che lo ha spinto a scrivere la sua opera memorialistica “Se questo è un uomo”, testo che testimonia quanto vissuto dallo stesso autore nel campo di concentramento di Monowitz, lager satellite del complesso di Auschwitz.
Divenuto uno dei libri fondamentali della letteratura italiana, una delle più significative testimonianze di un periodo storico tragico e disumano, ebbe inizialmente difficoltà nell’essere pubblicato. Infatti fu rifiutato dalla casa editrice Einaudi in ben due occasioni e da brillanti intellettuali, come Natalia Ginzburg e Cesare Pavese. Il merito della pubblicazione, in sole 2500 copie, va alla piccola casa editrice di Francesco De Silva. Fu anche proprio grazie al direttore, Franco Antonicelli, che si decise di sostituire all’intestazione scelta da Levi, “I sommersi e i salvati”, il celebre titolo che noi tutti conosciamo e amiamo “Se questo è un uomo”. Il successo e la notorietà del libro si fecero attendere fino al 1958, anno in cui l’opera venne pubblicata finalmente proprio dalla Casa dello Struzzo.
Se questo è un uomo: viaggio tra le degradazioni della vita nel lager
Con uno stile asciutto, sintetico ed esauriente l’autore narra le vicende vissute durante la Seconda Guerra Mondiale. Dal 13 dicembre 1943, giorno in cui Primo Levi venne catturato dalla Milizia fascista, al 27 gennaio 1945, quando i Russi arrivarono al campo. Pagina dopo pagina lo scrittore fa vivere al lettore l’atmosfera spietata e i luoghi degradanti che ha visto e vissuto. A partire dal campo di internamento di Fossoli, vicino a Modena, da cui tutti gli Ebrei partirono per Monowitz, un campo di lavoro contenente solamente sessanta baracche in legno, denominate Blocks.
Attraverso diciassette capitoli Levi fa immergere il lettore nell’orrore della vita quotidiana nel campo di concentramento.
Nonostante la narrazione segua un ordine cronologico, in realtà ogni capitolo è stato redatto solo seguendo la necessità d’urgenza, come afferma l’autore stesso. Ed è per questo che il primo a prendere vita fu proprio l’ultimo capitolo, “Storia di dieci giorni”.
L’opera si apre con una poesia. Il lettore, che si trova in una condizione di normalità e di sicurezza, viene esortato a non dimenticare chi ha vissuto la degradazione e l’umiliazione. Il punto di vista di Levi viene poi ribadito nella prefazione. Lo scrittore dichiara che lo scopo ultimo che persegue l’opera non è solo testimoniare quanto è accaduto ma è soprattutto quello di fornire uno studio dell’animo umano, in cui alberga l’odio razziale per il “diverso”, sentimento considerato da Levi “infezione latente”, che è sfociata alla fine nell’ideazione dei campi di concentramento. Finita la prefazione inizia l’opera vera e propria e, essendo un racconto commentato, nel descrivere ogni vicenda vi è un’alternanza continua di narrazione e riflessione.
Di capitolo in capitolo Levi pone l’accento su un particolare della vita del lager, sui dettagli che ne svelano l’orrore del meccanismo di disumanizzazione messo in atto nel campo di lavoro. Una volta si concentra sull’evidenziare il variegato panorama linguistico del lager, come nel terzo capitolo intitolato “Iniziazione”. Un’altra pone l’attenzione su dei luoghi in particolare, come quando nel capitolo “Ka-Be” descrive l’infermeria. Infine mostra al lettore anche i meccanismi interni e clandestini, forse meno conosciuti, che muovono la vita dei prigionieri. Quello della Borsa, per esempio, descritto nel capitolo ottavo, “Al di qua del bene e del male”, ovvero. Un vero e proprio “negozio” del campo dove si poteva scambiare di tutto, dalla zuppa al pane, dalle camicie al tabacco.
Uno dei capitoli maggiormente riflessivi e sicuramente tra i più importanti dell’opera è quello intitolato “I sommersi e i salvati”.
In questo Levi presenta la sostanziale distinzione che si veniva a formare tra i prigionieri del campo di concentramento, quella tra sommersi e salvati. I primi sono quegli uomini che eseguono tutti gli ordini che ricevono, non mangiano che la propria razione e si attengono alla disciplina del lavoro e del campo, fino alla totale alienazione. I secondi, i salvati, sono quelli che non si arrendono. Quelli che continuano a lottare ogni giorno contro la fame e gli stenti, e che sono riusciti a non soccombere di fronte a quella grande macchina di morte e strazio che è il campo di concentramento.
« Se i sommersi non hanno storia, e una sola e ampia è la via della perdizione, le vie della salvazione sono invece molte, aspre ed impensate».
Levi racconta che all’inizio anche lui faceva parte della categoria dei sommersi, coloro che non riescono a sopravvivere più di tre mesi all’orrore del lager. Ma poi qualcosa in lui cambia. Con l’esperienza capisce che l’unica soluzione per sopravvivere è diventare parte dei salvati. E il miglior modo è quello di conquistarsi un proprio posto, farsi incaricare di mansioni speciali, diventare indispensabile. Ci riuscirà quando al campo verrà organizzato un esame di chimica, descritto nel decimo capitolo, dopo il quale verrà ammesso alle mansioni di laboratorio.
Il viaggio arriva al culmine della disperazione nella sua tappa finale, nell’ultimo capitolo “Storia di dieci giorni”, dove il fato determina la fine di molti prigionieri. Dato l’arrivo imminente dell’Armata Rossa, i tedeschi decidono di evacuare il campo. Partono quindi con i prigionieri verso una marcia che li porterà alla propria fine. Di loro non si saprà più niente, compreso l’amico Alberto. Un destino diverso toccherà, invece, a Levi, che si era ammalato di scarlattina. Troppo debole per muoversi, fu abbandonato al campo senza acqua, senza elettricità, senza qualcosa per scaldarsi o da mangiare. Dopo dieci lunghi giorni fuori dal tempo e dal mondo, finalmente, il 27 gennaio 1945, arrivarono i russi e la salvezza.
Se questo è un uomo: viaggio all’Inferno, da quello di Dante a quello del lager
“Se questo è un uomo” è un’opera che non solo racconta da un punto di vista autobiografico una pagina di storia che molti vorrebbero dimenticare, ma lo fa anche con diversi riferimenti ai classici della letteratura.
Un esempio si trova nel capitolo undicesimo, “Il canto di Ulisse”. In una delle rare pause nella vita infernale del lager, Levi tenta di insegnare l’italiano a un compagno, cercando di recitare e spiegare alcuni dei versi della Divina Commedia. È solo attraverso la letteratura che i due prigionieri, provenienti da Paesi diversi e che parlano diverse lingue, si scoprono uniti da legami profondi, pronti alla comprensione reciproca e alla solidarietà.
Nell’estrema degradazione provocata dall’universo del campo di concentramento, in cui l’uomo è ridotto a un bruto che obbedisce istintivamente ai soli bisogni primordiali, l’aggrapparsi al ricordo letterario esprime il disperato tentativo di salvare ciò che resta di umano. Tutta la parte spirituale dell’individuo, la parte che l’organizzazione del lager mira meticolosamente ad annientare, riaffiora grazie ai versi danteschi e finisce per avere la meglio sulla riduzione dell’uomo a mero oggetto.
«Fatti non foste a viver come bruti/ma per seguir virtute e canoscenza».
Questo è il messaggio dantesco che il narratore rivaluta, capendo che esso si riferisce a “tutti gli uomini in travaglio”, specie chi, come i prigionieri, è costretto a una condizione subumana di sofferenza, fatica, umiliazione, abbrutimento, spersonalizzazione. In questo modo l’ostinato tentativo di ricomporre nella memoria gli ultimi versi dell’episodio di Ulisse diviene una forma di eroica resistenza all’annientamento. Ma la vita nel lager non tarda a riprendere il sopravvento con l’assillo animalesco della fame che tormenta i prigionieri. Il ritorno all’inferno è suggellato dall’ultimo verso del canto dantesco, che nell’opera sancisce la condanna di Ulisse, «infin che ‘l mar fu sopra noi richiuso».
Non solo il capitolo “Il canto di Ulisse” ha al proprio interno un riferimento alla Divina Commedia ma l’intera opera e la stessa detenzione in un lager possono essere paragonati al viaggio di Dante nell’oltretomba, in un mondo dal quale si crede di non poter più uscire. Il viaggio verso il campo di concentramento ricorda come le anime dei dannati venivano traghettate all’inferno attraverso il fiume Acheronte. E il soldato del campo, che si fa consegnare gli oggetti di valore dai prigionieri, riporta alla mente il tremendo nocchiere Caronte. Anche la scritta posta sull’ingresso del lager, «Arbeit macht frei– il lavoro rende liberi», viene proposta come una riscrittura dell’incipit del terzo canto dell’Inferno, una frase riferita alla porta di accesso al mondo dei dannati:
«Per me si va nella città dolente, per me si va ne l’eterno dolore, per me si va tra la perduta gente».
Inoltre il dottor Pannwitz, incontrato da Levi durante l’esame di chimica, può essere associato all’immagine del giudice infernale. Come il Minosse dantesco che assegna ciascuna delle anime dannate ad un determinato cerchio dell’inferno, il dottore ha la facoltà di decidere delle mansioni e del destino altrui. Infine, la descrizione di un altro luogo all’interno del campo di concentramento, l’infermeria, detta Ka–Be, ricorda invece il limbo. Un mondo escluso dalle categorie del bene e del male, privo di punizioni vere e proprie e, in un certo senso, un momento di tregua dagli orrori della vita nel lager.
Se questo è un uomo: viaggio nella mente umana
Il viaggio che Levi propone non è solo quello tra gli orrori del campo di concentramento ma anche quello nella mente di umana, in un contesto dove le naturali regole della civilizzazione vengono messe a tacere. Si analizzano gli stratagemmi e i sotterfugi necessari per sopravvivere, la ricerca continua di un minimo di dignità e di rapporti d’amicizia. E la necessità per i prigionieri di concentrarsi sul presente, con l’incapacità di raffigurarsi un futuro o di rimuovere i ricordi del passato.
Ogni luogo è animato da personaggi diversi l’uno dall’altro. Primo Levi è il protagonista e voce narrante. Arriva al campo a ventiquattro anni con «poco senno, nessuna esperienza, e una decisa propensione, a vivere in un mio mondo scarsamente reale ». Nell’inferno del campo trova un amico, Alberto, ventidue anni, da cui non si separa mai se non alla fine, quando quest’ultimo parte per la via che lo condurrà alla morte.
«Ha capito prima di tutti che questa vita è guerra; non si è concesso indulgenze, non ha perso tempo a recriminare e a commiserare sé e gli altri».
Semplicemente buono è invece come l’autore descrive Lorenzo, l’operaio italiano generoso e disponibile. Levi lo ricorda con infinita gratitudine perché proprio a Lorenzo deve di essere vivo. Non tanto per il suo aiuto materiale, quanto per avergli fatto capire che ancora esisteva qualcosa o qualcuno di buono nel mondo.
L’autore non ricorda solo chi è stato suo amico ma anche chi per sopravvivere è arrivato a fare qualsiasi cosa. Come Schepschel, che viveva di piccoli espedienti, come il furto, che non esitò a far condannare un compagno e complice per ottenere una buona reputazione. Come Henri, secondo il quale, per sopravvivere nel lager, bastava organizzazione, furto e pietà, e quest’ultima era il suo punto forte, godendo così di molte amicizie e di molti protettori. Affrontando il tema della sopravvivenza, quindi, Levi non si limita a descrivere solamente la lotta continua tra l’uomo e il proprio destino ma anche quella tra gli uomini e tra l’uomo e se stesso. La legge spietata della sopravvivenza permette solo a chi è abbastanza astuto di avere qualche speranza di salvezza. Così gli stessi prigionieri si trasformano in aguzzini, svelando l’orrore profondo che si cela in ogni animo umano.
La seguente edizione è stata pubblicata da Einaudi.
Articoli Correlati: