Earl Sweatshirt giovanissimo rapper di Chicago comincia a masticare musica quando non è altro che uno sfigato adolescente di periferia che passa il tempo tra fumo e giri in bicicletta. Incide il primo album all’età di 16 anni, poco prima di venir spedito dalla madre in un collegio nell’arcipelago di Samoa, uno sperduto gruppo di isole nel Pacifico dimenticato da Dio. Qui entra in contatto via social con Tyler, the Creator, capitano del supergruppo losangelino Odd Future, fertile fucina dell’hip–hop contemporaneo in cui Earl, una volta ritornato in America, si aggregherà ed emergerà. Cresce e matura negli anni fra EP e album, spinto dal vento di Los Angeles, ma allo stesso tempo chiuso in un’individualità cristallina ed inviolabile che proprio con quest’ultimo lavoro sboccia in maniera definitiva.
Eccoci dunque davvero sorpresi per questo lavoro “sotto le righe”.
Una perla anti–pop, un mixtape più che un vero e proprio album, vicino all’hip–hop d’avanguardia e, in secondo luogo, lontano da qualsiasi ammiccamento alle mode discografiche. È un album interiore, personale e dunque sincero. Earl compone rime impastando versi ermetici e venati di paranoia, si concentra sulla libera associazione rifacendosi alla poetica dello stream of consciousness di joyciana memoria.
Ho parlato di mixtape per sottolineare la natura frammentaria e disgregata di quello che è, in realtà, un vero e proprio album. Il titolo “Some rap songs” infatti non è casuale: la sua genericità nega una direzione precisa, un ordine delineato, una concept story . Le canzoni fluiscono una nell’altra e durano non più di tre minuti (e spesso molto meno). Sono frammentarie ed agiscono per suggestione. Un rap anti–politico, anti–pubblico che si fa introverso, poetico e soprattutto dannatamente complesso. La musica sembra più rivolta a seguire la logica del sogno che quella della realtà. Le ragazze, gli homies lasciano spazio ai ricordi e alla memoria: ogni traccia suggerisce un viaggio iniziatico all’interno della psiche, alla disperata ricerca di un’identità. Un’identità che rischia di vacillare proprio come conseguenza della morte del padre, poeta ed attivista, avvenuta durante l’incisione dell’album.
La figura del padre e della sua repentina scomparsa acquistano un valore centrale nelle liriche e nella musica.
Se titoli come “red water” (blood in my water, I was walking in my sleep, blood on my father, I forgot another dream) o “peanut” (picking out his grave, couldn’t help but feel out of place) sono intrise di riferimenti testuali rispettivamente al genitore ed allo zio, in altri brani (come “playing possum“) la voce del padre entra direttamente nel campionamento mentre recita testi delle sue poesie e duetta con la voce della madre .
I feat. non mancano (“The Mint“, “Ontheway“, “Playing Possum“) e gli ospiti sono illustri: Navy Blue, Standing on the Corner ecc… le loro parti si inseriscono in sordina, sottovoce e prive di clamore, senza intaccare (come succede frequentemente) la personalità e l’organicità del disco. Inoltre dal punto di vista della produzione l’album si struttura come un’opera corale, frutto della sinergia di nomi come Sweatshirt, Booliemane, Adé Hakim, Denmark, Black Noi$e e Sage Elesser.
I sample utilizzati godono di un’esaltante bulimia e fondono languori nu–jazz, chitarre soleggiate e retrò, raffinatezze avant–garde, distorsioni allucinogene. Si respira odore di mescalina ad ogni traccia, una trance psichedelica che ci traghetta dal mondo esterno al mondo dell’inconscio. Il loop regna sovrano: ogni brano è basato interamente su campionamenti ripetuti.
Di questa tecnica ce ne parla lo stesso Earl che la definisce come: “l’infinito, un serpente che si morde la coda.“
Afflato mistico e ossessività compulsiva. Il volume della base risulta nello stesso modo ingerente e possessivo, tanto che alcune volte sembra sul punto di detronizzare quella voce baritonale e profonda con cui Earl si vuole raccontare: un’identità disgregata dal clamore dei suoi pensieri e dei suoi complessi irrisolti. Che Earl si tenga lontano dai giri dello star system musicale rap di questi anni appare evidente anche da queste scelte produttive.
Earl Sweatshirt ci insegna che il rap non è solo soldi e belle ragazze ma, forgiato dalle giuste mani, si fa portatore di mondi complessi e poliedrici.
Infine due parole sulla calda, avvolgente resa home–made che dà in definitiva l’idea di un disco nato come catarsi e redenzione personale, cicatrizzante per ferite ancora aperte. Il sibilo delle cassette nel lettore, lo stacco netto e interrotto dei sample dal sapore lo–fi, il crepitio familiare della puntina che scivola sul vinile. Sono presenze impalpabili ma presenti nell’incisione. Sono operazioni da sound-designer: invisibili, illeggibili, ma insinuate in maniera subliminale come uno strato di polvere che si posa sugli oggetti. E in questa operazione Earl strizza l’occhio al jazz.
Ci troviamo di fronte ad un geniaccio dell’hip–hop già maturato, grezzo e viscerale, in grado di scrivere testi rap come fossero poesie e di intrecciare nelle sue istanze vari generi con navigata esperienza, facendosi assoluto protagonista del panorama r&b d’oltreoceano.
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