Era l’estate del 1953 quando, nel cuore della notte, Arnold Spielberg svegliò il figlioletto di 6 anni per assistere ad uno spettacolo incredibile. Il piccolo Steven non si sarebbe mai immaginato che lo spettacolo a cui alludeva il padre era lo Sciame Meteorico delle Persidi.
Come raccontato nel documentario del 2017 “Spielberg“, Steven rimase letteralmente affascinato da quella pioggia di meteoriti e dal cielo tanto sconfinato quanto torbido. Per lui fu un’esperienza magica, che non solo lo fece innamorare del cielo e di tutti i suoi misteri, ma fu di ispirazione per i futuri lavori come “Incontri ravvicinati del terzo tipo” e “E.T. L’extraterrestre”.
Spielberg coltivò la passione per il cinema quando sua madre Leah regalò ad Arnold una macchina da presa amatoriale per la festa del papà.
Ovviamente fu Steven a prenderne possesso, e da quel momento cominciò a filmare qualsiasi cosa, dalle gite di famiglia a veri e propri film amatoriali. Già all’età di dodici anni aveva ben chiaro quale fosse il mestiere dei suoi sogni: fare il regista. Per poter portare avanti questa sua passione Steven svolgeva piccoli lavoretti per racimolare i soldi necessari per comprare la pellicola per girare i suoi film.
Aveva sedici anni quando andò al cinema per la prima volta. Il film era “Lawrence d’Arabia” e quando uscì dalla sala era totalmente sconvolto, a tal punto che in lui si insinuò il pensiero che non avrebbe mai fatto il regista perché non sarebbe mai stato in grado di creare un’opera tanto monumentale. Affascinato, Steven tornò a vederlo, e dopo innumerevoli visioni si rese conto di quanto poteva essere immenso il mondo del cinema e l’arte della regia. Da quel momento, decise che il mestiere del regista era quel che voleva fare nella vita.
La passione per la regia cresceva assieme a lui.
Dopo la scuola era solito svolgere piccoli lavoretti per finanziare i propri film. Da questi sforzi nacque il suo primo vero lavoro importante: “Firelight” (1964), un lungometraggio fantascientifico di 140 minuti, che racconta le indagini condotte da un gruppo di scienziati su avvistamenti di strane luci comparse in cielo.
Diversamente da come si potrebbe pensare, Steven non frequentò mai alcun corso di cinematografia. Tutto quello che sapeva sulla regia lo aveva imparato da autodidatta.
Narra la leggenda che era solito intrufolarsi di soppiatto negli studios della Universal e visitare i set allestiti, riuscendo perfino ad assistere alle riprese di un film di Alfred Hitchcock. Ma non solo! Si dice che per qualche mese riuscì a prendere possesso di un ufficio dove portò un telefono e inserì il suo nome sulla porta. Il trucco era entrare assieme agli altri dipendenti della casa di produzione come se anche lui facesse parte dell’azienda. Un’esperienza alquanto bizzarra e surreale, ma che consentì a Spielberg di fare la conoscenza con chi possedeva una certa dimestichezza con le produzioni cinematografiche. Così conobbe Dennis Hoffman un aspirante e facoltoso produttore.
Affascinato dalle doti del ragazzo, Hoffman consegnò a Steven 10.000 dollari come finanziamento per un prodotto professionale girato in 35 mm.
In soli dieci giorni, il ragazzo prodigio tramutò un breve soggetto di appena cinque pagine, nel copione per un cortometraggio di circa 26 minuti. Così nacque “Amblin‘”, il lavoro che spianò a Spielberg la strada verso il successo. Priva di dialoghi, la storia venne raccontata attraverso la colonna sonora e narra di due hippy autostoppisti, intenti ad attraversare il deserto del Mojave. Amblin diventò, in seguito, il nome della casa di produzione da lui stesso fondata nel 1981 (oltre alla DreamWorks).
“Amblin” venne distribuito dalla Paramount e diede grande visibilità al giovane Spielberg, a cui poco dopo la Universal offrì un contratto di sette anni come regista televisivo. La gavetta fu un’esperienza molto formativa per lui che, come prima cosa ebbe l’incarico di dirigere il pilot di una serie TV intitolata “Night Gallery” (“Mistero in galleria”) la cui protagonista era niente meno che Joan Crawford.
L’esperienza significò molto per il giovane, tant’è che tutt’oggi Spielberg ricorda con molto affetto Joan Crawford, l’unica su quel set a trattarlo come un vero regista e non come un novellino alle prime armi.
Dopo la parentesi vissuta sul set di “Night Gallery”, la grande avventura di Spielberg come regista di lungometraggi ebbe inizio tra il 1971 e il 1972, quando girò tre film per la televisione: “Duel”, “Il signore delle tenebre” e “Savage”.
Tratto dal racconto di Richard Matherson, “Duel” è la storia di David Mann, un uomo che, durante un viaggio in macchina, dovrà vedersela con un’autocisterna impazzita, che darà il tormento al protagonista. Già da “Duel” la genialità di Spielberg cominciò ad emergere. Difatti, Il conducente dell’enorme autocisterna non viene mai mostrato. Il film risultò essere un misto di suspense e humor in cui il male viene sconfitto. Diversamente dal regista, la produzione avrebbe voluto vedere saltare in aria il camion, ma Spielberg non lo permise. Volle mettere in scena le parti meccaniche del mezzo di trasporto, mostrando la fine dell’autocisterna come metafora di una morte agonizzante.
Tre anni dopo Spielberg diresse “Sugarland Express”, che lui stesso considera come il suo vero e proprio film d’esordio. Ispirato ad un fatto realmente accaduto in Texas, “Sugarland Express” è la storia di Lou Jean e Clovis Poplin, due coniugi con problemi penali, determinati nel volersi riprendere il loro figlioletto di due anni dato in affido. Per farlo, Lou Jean aiuta il marito ad evadere di prigione e insieme rapiscono un poliziotto . Si dirigeranno verso Sugarland, inseguiti da una marea di macchine della polizia sotto la supervisione del capitano Tanner.
Purtroppo “Sugarland Express” non ebbe un buon riscontro commerciale, cosa che avrebbe potuto costare cara alla carriera della giovane promessa della Universal. Per fortuna la critica elogiò il film e la tecnica registica di Spielberg.
Curiosità vuole che mentre era impegnato nelle riprese di “Sugrland Express”, Steven trovò un romanzo scritto da Peter Benchley che lo appassionò tantissimo, a tal punto da chiedere alla Universal di usarlo come storia per il suo prossimo film. Fu così che nacque “Lo Squalo”, uno dei più grandi successi cinematografici di tutti i tempi, che consacrò definitivamente Spielberg proiettandolo nell’Olimpo Hollywoodiano.
La trama la conosciamo tutti.
Un enorme squalo terrorizza i cittadini della tranquilla Isola di Amity, una località che sopravvive grazie al turismo balneare, e toccherà all’improbabile trio formato dal capo della polizia Martin Brody (Roy Scheider), lo zoologo esperto di pescecani Matt Hooper (Richard Dreyfuss) e il cacciatore di squali Quint (Robert Shaw), a scongiurare il pericolo.
Dirigere “Lo Squalo” non fu certo un’impresa semplice e la decisione del regista di girare in mare aperto e non in studio, non facilitò le cose. Solitamente veniva allestita un’enorme vasca con all’interno piccoli modellini a forma di barca. Ma Spielberg voleva, esigeva autenticità. E una tale autenticità poteva trovarla in un solo modo: girando in mare aperto.
La stesura iniziale prevedeva molte scene in cui lo squalo faceva la sua apparizione. “Sfortunatamente” (o fortunatamente) il modello meccanico che raffigurava l’animale in tutta la sua grandezza si guastò. Così Spielberg e il compositore John Williams trovarono una soluzione ingegnosa che rese “Lo Squalo” più inquietante che mai.
“Fa più paura quello che non si vede di quello che si vede”
L’intero film venne così incentrato sul pericolo che rappresentava lo squalo e non sullo squalo stesso. L’accompagnamento musicale ebbe così una funzione determinante per la pellicola. Difatti, grazie ad un crescendo di terrore e di ansia, lo spettatore percepisce il pericolo imminente. Le due note ebbero un ruolo primario nella realizzazione. Spielberg riuscì a descrivere il tutto, senza mostrare effettivamente il bestione. L’idea era di inquadrare piccoli dettagli della sua enorme mole (una pinna, la coda) facendo galleggiare oggetti che lo squalo avrebbe trascinato muovendosi per attaccare.
Il misto di musica e mistero crearono una sensazione di ansia estrema.
“Lo Squalo” fu un trionfo, il pubblico prese d’assalto i cinema. In seguito, il regista ventinovenne, venne chiamato a replicare il successo, a dimostrare che non era stato solo un caso. Era pronto a portare sul grande schermo quel che più lo affascinava. Ciò che suo padre lo condusse ad osservare quando era solo un bambino: il cielo.
Con “Incontri ravvicinati del terzo tipo” Spielberg si giocava la carriera.
Il film approdò nelle sale nel 1977, ma la lavorazione durò quattro anni. Era la pellicola dei suoi sogni, quella che avrebbe da sempre voluto girare.
Scrisse di suo pugno la sceneggiatura, racchiudendo in essa molte delle esperienze personali. Quando Arnold lo aveva portato ad ammirare lo sciame meteorico, era rimasto affascinato dalla volta celeste, immaginando che il primo incontro della civiltà umana con quella extra terrestre sarebbe avvenuto in maniera pacifica. Difatti, il personaggio di Roy Neary (Richard Dreyfuss) vive le stesse esperienze che Steven aveva vissuto quando era un ragazzino: la disfatta della sua famiglia e una forte ossessione per l’ignoto.
Arnold si separò da sua moglie e Steven subì la mancanza di una figura paterna. Dopo “Incontri ravvicinati del terzo tipo”, tale tematica fu una costante nei suoi film, come l’assenza del padre di Elliot in “E.T. L’Extraterrestre”; il difficile rapporto tra Indiana Jones e suo padre, troppo impegnato nelle sue ricerche storiche per poter stare con suo figlio; in una scena di “Jurassic Park”, il Proferssor Grant e Tim ammettono entrambi di non aver mai costruito una casa sull’albero con il proprio padre.
“Incontri ravvicinati del terzo tipo” fu un film dispendioso, ma riuscì a replicare il successo de “Lo Squalo”, e Spielberg continuò a girare pellicole piene di immaginazione e di fantascienza, proseguendo la strada che aveva imboccato quando a diciassette anni aveva girato “Firelight”, come un eterno ragazzino che segue il sogno di poter imprimere su pellicola tutta la sua fantasia.
Approfondimenti: