Dopo aver portato sul grande schermo capolavori come “Inception”, “Interstellar”, “Memento” e la trilogia sul Cavaliere Oscuro, Nolan segna il suo 2020 con l’uscita nelle sale di “Tenet”.
Ancora una volta, la fatica del regista angloamericano sconta in 2h30′ di pellicola un tema che pare essere diventata sua sacra missione da svolgere ed esplorare; il Tempo.
Nodo cruciale che sorregge la trama è l’inversione del principio di causa-effetto che regola i fenomeni della natura e, dunque, amministra le nostre esistenze: la legge fisica, secondo cui l’entropia del mondo è in costante aumento, può essere alterata. Le conseguenze – è superfluo dirle – sono potenzialmente apocalittiche.
Esiste infatti un particolare materiale, chiamato appunto Tenet, capace di dare vita a processi con un ΔS negativo (il nome, che dà il titolo al film, è scelto perché, in quanto palindromo, non si deforma se letto in versi opposti).
In virtù del principio termodinamico dell’entropia, la nostra percezione del tempo è lineare e monodirezionale: se la pallina A tocca la pallina B, B successivamente si muove. Nolan immagina di poter invertire il processo, di ridurre il disordine riportandolo allo stato più ordinato che aveva in precedenza. All’occhio “non invertito”, sarà la pallina B a tornare indietro e a colpire la pallina A.
In un’ottica temporalizzata, ciò coincide con la possibilità di tornare indietro nel passato.
Sulla scena, a questo punto, si vede di tutto. Proiettili “invertiti” rientrare ad altissima velocità nel caricatore di una pistola, invece di essere sparati al di fuori di esso; veicoli che procedono all’indietro e bungee jumping inversi, che invece di tuffare nel vuoto possono proiettare un uomo sulla sommità di un edificio; fenomeni fisici radicalmente deformati, per cui un’esplosione o un incendio possono ghiacciare e uccidere per ipotermia.
Com’è suo uso, Nolan concede qualche spazio a una specie di “filosofia“: con l’inversione dei nessi causali e la priorità temporale del risultato sull’atto, se tutto è anche visualmente già determinato e accaduto, dove finisce il libero arbitrio? Se agendo, pur liberamente, agiamo necessariamente verso un termine già decretato dal tempo, la nostra volontà è veramente libera? Come spesso accade – e in questo rileviamo un non piccolo difetto – le esigenze dell’azione sigillano questi pur interessanti interrogativi nello spazio serratissimo di un botta-risposta. La sensazione che ne viene è come di uno spunto mutilato, che è compito dello spettatore scandagliare a film concluso. Diremmo in altri termini: la sensazione è quella di un film che si fa e si potenzia al suo vero significato solo nel dopo-film; durante la visione, il ritmo incalzante e ipnotico della vicenda lascia davvero poco spazio al pensiero.
Tornando al sopracitato pericolosissimo materiale, Tenet, c’è da precisare che esso non appartiene al presente.
Ricorrendo ad esso, uomini del futuro sono stati in grado di creare, attraverso un semplicissimo meccanismo a tornello, una vera e propria macchina del tempo, capace di soddisfare due esigenze. La prima, “tradizionale”, di andare indietro nel tempo.
Nella seconda sta invece il segno di una genialità indiscussa, quella del 50enne cineasta vincitore di 10 Oscar: invertendo principio e termine di un segmento temporale, si può percorrere tale segmento al contrario. Chi ne fa uso continuerà, istante per istante, a vedere andare indietro le lancette del suo orologio, regolato su un sistema di riferimento “normale”. Gli uomini cammineranno al contrario e i gabbiani voleranno all’indietro, senza del resto; e qui sta la mossa chiave; che dal loro punto di vista l’invertito appaia effettivamente come tale.
Proprio qui, a nostro avviso, si annida il segreto del film, la sua chiave di lettura e, in ultima analisi, ciò che ne fa una pellicola di fantascienza senz’altro interessante. Il ritorno della posterità al passato non lo altera, ma lo dispone e lo fa accadere esattamente come è “già” accaduto; ma quel “già”, per un occhio non più lineare, è assai ambiguo. Al punto che un personaggio si trova a combattere con sé stesso “invertito”.
In una parola, passato e futuro si incrociano e si annullano nel piano voluminoso e transdimensionale del presente.
L’ingente budget di cui Nolan disponeva viene investito nella realizzazione di scene ibride mai viste prima d’ora, caratterizzate dalla presenza simultanea di personaggi che si muovono sia verso il futuro che verso il passato. Soldati che corrono in avanti e all’indietro, granate che esplodono e si ricompongono, edifici che crollano e si innalzano, vite che si consumano e si rianimano.
Se Bergman, in “Persona” (1968), aveva rivoluzionato il cinema girando lo stesso dialogo da due punti di vista che, differenti all’origine, si annullano in una sostanziale identità, Nolan si può permettere di girare la stessa scena due volte, una all’avanti (prima) e una all’indietro (poi), usando il tempo come arma tanto potente da troncare di netto l’identità dei due punti di vista (come detto sopra, i due sono in realtà la stessa persona, secondo due andature temporali differenti) e inscenare una differenza che in realtà non sussiste se non come distanza cronologica – l’uno è semplicemente l’altro invecchiato di qualche ora.
A padroneggiare la pellicola è dunque l’azione. Come sopra accennato, la visione è pura esperienza, e la comprensione viene procrastinata alla riflessione solitaria o al confronto con gli amici.
È lo stesso anonimo Protagonista, del resto, a suggerirci una condotta:
“Non cercare di capire… Sentilo!“.
Non si può però fare a meno di notare, tuttavia, un aspetto davvero poco convincente nella narrazione: l’assenza praticamente totale di introspezione psicologica – che invece era stata profondamente sviluppata in passato, ad esempio, in Inception – unita alla banale e forzata instaurazione del rapporto d’affetto tra il Protagonista e Kat, causano un senso di alienazione e come di distacco da alcuni passaggi di trama, che a tratti paiono corpi estranei appositamente installati dentro una storia già compiuta (è il caso della maternità macchiettistica e piuttosto sterile di Kat, madre forte e vendicativa ma debole nel continuo appello a un figlio lontano).
D’altronde, non andrete a cercare in primo luogo questo nel cinema di Nolan, quella potente macchina filmica il cui successo – scherzando solo fino a un certo punto – sta nell’istupidire lo spettatore e drogarlo di un grande orgasmo di deliri scenici, svolti sempre sul filo di un mondo che termina e di un eroe che lo salva.
Restano in ogni caso due dilemmi, potentissimi, a cui solamente accenniamo. L’entusiasmo malato di un uomo ha diritto, uccidendo se stesso, di far collassare con sé il mondo e – udite udite – il Tempo stesso? E infine – più sottilmente – una posterità che pretende annichilire integralmente, per ripicca, la generazione degli avi, cos’avrebbe da rispondere al celebre paradosso del nonno? Se davvero si potesse viaggiare indietro nel tempo e uccidere il proprio nonno prima che abbia avuto figli, infatti, la propria stessa esistenza sarebbe impossibile e la soluzione si accartoccerebbe su se stessa. Probabilmente, un silenzio come istupidito regnerebbe sul volto della posterità. In fondo, a ben vedere, lo stesso silenzio stupido, entusiasta e drogato che a Nolan tanto piace generare nel suo divisissimo pubblico.
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