“Sono uno che interpreta un altro, che recita di essere un altro” (Kirk Lazarus – Tropic Thunder)
Inizio col dire che no, non è il solito film comico. Che poi, cosa è comico? Una vecchietta che cade e si rompe il femore? Il cinepanettone e il suo protagonista di turno che emette sonori peti letali? La comicità è una linea sottile, labile, una demarcazione tra ciò che ci fa ridere e ciò che ci fa riflettere. La comicità, la satira, sta nel mezzo. Chiunque ci dirà che l’essere umano ride in due modi: di pancia e di testa. Ma in pochi vi diranno che entrambe le cose, anche in maniera triste, sono fattibili.
Quel che riguarda “Tropic Thunder”, invece c’è, si vede, è tangibile.
La satira la tocchi e a tratti scotta, brucia, lascia segni. Indelebili, solchi profondi nel pensiero. Non è solo comicità, è ragionamento, è calcolo, è critica ponderata ad un establishment, ad una Hollywood che ti inghiotte e ti sputa dopo averti sedotto, tendendoti una trappola. Al giorno d’oggi abbiamo persino paura a dire “uomo di colore” che scatta subito l’indice accusatorio “sei razzista!”, che di fronte ad un RDJ (Robert Downey Jr.) con la black face – perdonatemi il gioco di parole – sbianchiamo. E allora censuriamola questa perla stilleriana, tarpiamo le ali alla satira, alla comicità, all’idea del giusto e del corretto. Tarpiamo le ali all’uccello che vuole solo essere se stesso e volare alto. Sputiamo in faccia alla realtà perché non ci piace…

…o forse siamo noi a non piacere più a noi stessi, e inventiamo fantasmi da scacciare e scheletri da rinchiudere in armadi oramai colmi e strabordanti di qualsivoglia perversione vergognosa chiusa lì a doppia mandata? L’idea che qualcosa ci legga dentro, ma più di tutto che ci capisca, non è contemplata. “Tropic Thunder” può non piacere, e questo lo accettiamo nella maniera più assoluta.
Ma non si può rimanere inermi di fronte al film.
Ogni scena è critica pura, ogni immagine è parodia: dalle scene di guerra fino alla ricerca delle emozioni umane da carpire e reinventare, dalla black face “che non va bene” di RDJ fino ai problemi di droga del buon Portnoy (Jack Black), dagli agenti approfittatori ai produttori senza scrupoli – toh, guarda un po’! – fino ai registi declassati a ruolo di facchini, quasi a sovvertire il mondo delle idee, ignorandole a tal punto che il film si deve fare secondo i canoni prestabiliti, abbandonando quel flusso di coscienza tipico dell’arte e dell’artista che la emana.

E non azzardatevi a dire che Simple Jack è una rappresentazione distorta di ciò che realmente è una malattia mentale, perché fareste un torto a voi stessi, in primis non riconoscendone l’esasperazione comica del personaggio e la presa per i fondelli ilare e ironica di un metodo Stanislavskij agli eccessi.
“Tropic Thunder” è quel che è, e non vorrei fosse diverso, perché sarebbe altro, e non sarebbe migliore. Azione, satira, comedy, un bel gruppetto di “attoroni” della Hollywood che viene criticata e alla quale in prima persona partecipano, magari fino a renderla quel che è – e qui posso accettare una critica in antitesi, una sorta di ipocrisia velata -, una tecnica registica a tratti eccelsa ed una fotografia dai colori vividi, naturali e ben calibrati, dialoghi taglienti che in alcuni punti sfiorano il nonsense – ma piace, eccome se piace – e soprattutto i riferimenti ai film di guerra più famosi della storia – “Apocalypse Now”, “Platoon” – e anche una presa in giro del loro modo di essere realizzati, della seriosità che li ammanta, una parodia della loro ricerca della perfezione.

L’idea di “Tropic Thunder” risale almeno alla fine degli anni ‘80, quando Stiller ascoltava i suoi colleghi parlare di campi di addestramento militare per preparare gli attori a diventare “veri soldati”. Pensando che questo atteggiamento fosse piuttosto buffo – “Come sarebbe buffo, buffo come, perché buffo?”, citazione doverosa -, in maniera del tutto inconscia e naturale prese corpo dentro la sua mente perversa l’idea di una sceneggiatura in cui un gruppo di attori si ritrovava in uno di questi campi di addestramento, col risultato che alla fine della preparazione a tutti i partecipanti fosse diagnosticato il disturbo da stress post traumatico.
Negli anni, da semplice bozza di script si andò verso un progetto via via sempre più grosso, pur mantenendo il nucleo vitale dell’idea intatto: giocare a prendere in giro i modi di realizzazione più seriosi dei film bellici e, allo stesso tempo, abbattere a suon di bordate parodistiche ogni stereotipo hollywoodiano. A mio parere, well done Ben, well done.