Dallo schiavo del folklore haitiano al morto che torna in vita, lo zombie – che sia lento o veloce – ormai lo abbiamo visto in tutte le salse. Ma come nasce? Come si sviluppa? Quali sono le rielaborazioni più recenti? Proviamo a ricostruire insieme una piccola storia dei nostri amici non-morti.
Il termine zombie proviene dalla tradizione voodoo di Haiti: secondo le credenze popolari dell’isola, alcuni sacerdoti sarebbero capaci di catturare parte dell’anima di una persona e intrappolarla. La vittima cadrebbe in uno stato catatonico simile alla morte, rischiando così di essere seppellita. Solo i sacerdoti sarebbero in grado di resuscitare la vittima restituendogli una piccola parte dell’anima rubata e rendendola schiava. Questa rappresentazione dello zombie è presente in “Il serpente e l’arcobaleno” (1988), film meno conosciuto del maestro Wes Craven.
Ma quello che viene considerato il primo film con la figura dello zombie è “L’isola degli zombies” (1932) di Victor Halperin con Bela Lugosi. Sempre nei Caraibi è ambientato anche il nostrano “Zombi2” (1979) diretto da Lucio Fulci. Sebbene il titolo riprenda “Zombi” di George Romero (il terribile adattamento italiano del titolo originale “Dawn of the Dead”), in realtà il cult di Fulci si discosta parecchio dalla critica romeriana e si concentra, come i due film precedentemente citati, sull’origine haitiana dello zombie. Ma procediamo con ordine.
Anni ’30 e ’40
Dopo “L’isola degli zombies”, nel 1943 arriva “Ho camminato con uno zombi” di Jaques Tourneur, film rimasto inedito in Italia fino al 1984. Evidente nella pellicola è la connessione tra lo stato dello zombie e la schiavitù. Siamo sempre nell’ambito haitiano: l’infermiera canadese Betsy si reca sull’isola caraibica di Saint Sebastian per assistere Jessica Holland, una donna incapace di badare a se stessa a causa di una malattia. Jessica è sposata con Paul Holland, ricco proprietario di una piantagione di zucchero. Betsy viene accompagnata alla piantagione da un autista locale che le dice che è stata la famiglia Holland a portare la schiavitù sull’isola.
Tra misteri e riti religiosi, Betsy riuscirà a scoprire la verità circa lo stato catatonico in cui versa la donna. La condizione da zombie di Jessica, donna bianca e ricca che vive in una piantagione di zucchero, sembra rispecchiare ironicamente la situazione degli schiavi, impossibilitati come lei a vivere liberamente perché soggetti al volere di altre persone. È soprattutto nel finale che il “rispecchiamento” trova compimento, con il corpo senza vita di Jessica che galleggia nel mare, destino che era spettato anche a un enorme numero di schiavi portati lì dall’Africa.
Lo zombie moderno
Dopo altri film come “L’isola stregata degli zombies” (1957), nel 1968 George A. Romero dà vita allo zombie nella sua accezione più nota, ovvero il morto che ritorna dalla tomba e si nutre di carne umana. Ne “La notte dei morti viventi” lo zombie (ora, appunto, morto vivente) è metafora di un’umanità alla deriva. Non c’è nessuno stregone, nessuna magia. Anche se Romero non utilizza la parola zombie, è da qui che deriva l’immagine del morto che si risveglia in seguito ad un misterioso virus e inizia a mangiare la gente; questa è infatti la declinazione che si affermerà negli anni successivi. Un altro elemento estremamente provocatorio è la scelta di un attore di colore nel ruolo del protagonista. Romero ha sempre sostenuto che Duane Jones fosse stato scelto semplicemente perché il più adatto alla parte. Tuttavia nei film statunitensi dell’epoca era inusuale trovare un afroamericano nel ruolo principale.
Se pensiamo alla fine che il personaggio fa, inoltre, e al clima di tensione razziale dell’epoca, il tutto assume ancora più forza. Romero insiste sulla critica sociale anche nel secondo capitolo, “Dawn of the dead” (1978). Siamo ora alla fine degli anni ‘70, nel pieno splendore della società dei consumi: quale luogo migliore se non un centro commerciale per intrappolare i personaggi? Sì, perché anche dopo la morte, i grandi magazzini non smettono di esercitare la loro attrazione. Dopo l’alba, ovviamente il giorno: “Day of the dead” (1985) introduce un’altra interessante innovazione, lo zombie–amico. Tenetelo a mente, perché ci torneremo più avanti.
Lo zombie in Italia
Se si parla di zombie non si può non menzionare la “trilogia della morte” dell’immenso Lucio Fulci. Dopo il già citato “Zombi 2”, infatti, Fulci dirige “…E tu vivrai nel terrore! L’aldilà” (1981), “Paura nella città dei morti viventi” (1980) e “Quella villa accanto al cimitero” (1981): i film sono caratterizzati da situazioni oniriche e da una bella dose di splatter.
Degli stessi anni è “Incubo sulla città contaminata” (1980) di Umberto Lenzi in cui è stata una fuga radioattiva da una centrale nucleare a trasformare le persone in mostri. Curiosità: è risaputo quanto Quentin Tarantino ami il cinema italiano e lo omaggi nei suoi film. In “Kill Bill” (2003), il cineasta statunitense cita l’iconica scena delle lacrime di sangue di “Paura nella città dei morti viventi”. Inoltre, il segmento di “Grindhouse” intitolato “Planet Terror” (2007), diretto in realtà da Robert Rodriguez, è un chiaro omaggio a “Zombi 2” e “Incubo sulla città contaminata”.
Rimanendo in Italia, una menzione speciale va a “Dellamorte Dellamore” (1994) di Michele Soavi, capolavoro tratto dall’omonimo romanzo di Tiziano Sclavi. Chiamarlo film di zombie è riduttivo; si tratta di un’opera suggestiva e ricca di spunti, con ruoli che cambiano, situazioni paradossali e molto humor nero.
Anni 2000
Dopo un lungo periodo di silenzio (quasi sembrava arrivata la morte del non-morto), nel 2002 Danny Boyle dirige “28 giorni dopo”. Un’altra declinazione dello zombie sarà destinata a diffondersi, proprio come il virus che li genera: si tratta del corridore instancabile e rabbioso. In “28 giorni dopo”, infatti, si parla di persone infette da un virus mutato della rabbia. Chiunque venga morso da queste (ex) persone, ormai violente e senza controllo, diventerà come loro. Indimenticabile la scena iniziale in cui Jim (Cillian Murphy), appena svegliatosi dal coma in un ospedale vuoto e disastrato, inizia a vagare per una Londra deserta. Identico l’incipit di “The Walking Dead”, in cui a svegliarsi da un coma per scoprire che la società conosciuta fino a quel momento era crollata è Rick Grimes (Andrew Lincoln).
Dal fumetto scritto da Robert Kirkman, iniziato nel 2003 e terminato nel 2019, è stata tratta l’omonima serie che ha dominato la scena dal 2010 (attualmente è in onda la decima e ultima stagione).
In “The Walking Dead” lo zombie è quello romeriano, lento ma inevitabile, spaventoso soprattutto quando è in gruppo. Per quanto riguarda il piccolo schermo, qui meritano almeno una menzione anche “Black Summer” (2019 – in corso) e “Dead Set” (2008).
Gli anni 2000 sono anche gli anni in cui Romero porta a termine la sua saga dei morti viventi. “Land of the dead” (2005) tocca questa volta il tema dell’aggressione, del terrorismo e dello sfruttamento dei più poveri. In “Diary of the dead” del 2007 (uno dei miei preferiti), Romero dimostra ancora una volta la sua genialità utilizzando l’espediente del found footage. La lezione è quella già data da Ruggero Deodato nel suo “Cannibal Holocaust”: la necessità di documentare. Mentre in “Cannibal Holocaust” i protagonisti sono disposti a fare di tutto pur di avere qualcosa da filmare, in “Diary of the dead” c’è l’attitudine inversa, ovvero quella di non intervenire mai – nemmeno quando uno zombie sta per ammazzare i tuoi compagni – poiché il ruolo assunto è quello dell’osservatore e non di chi agisce. La saga termina con “Survival of the dead” (2009), ultimo film diretto da Romero.
Zombie comedy
In questi stessi anni vede la luce “Shaun of the dead” (gioco di parole con il “dawn” ofthedead romeriano, mentre l’imbarazzante titolo italiano, “L’alba dei morti dementi”, non meriterebbe nemmeno di essere menzionata) diretto da Edgar Wright nel 2004. Intelligente commedia che rende omaggio alle pellicole zombie con un protagonista, Shaun (Simon Pegg), intrappolato in una routine da “inetto”; paradossalmente, sarà proprio l’apocalisse zombie a farlo svegliare e riprendere in mano la sua vita. Altra rielaborazione in chiave comica è “Benvenuti a Zombieland” (2009), film on the road con Jesse Eisenberg, Woody Harrelson, Abigail Breslin ed Emma Stone. Le assurde ma allo stesso tempo sensate regole per sopravvivere alla fine del mondo e l’esilarante caratterizzazione del quartetto dei protagonisti hanno reso questo film un instant–cult che non stanca mai.
Ricordate lo zombie-amico cui accennavo prima? “Fido” (2006) riprende la figura di Bub ipotizzando un mondo in cui nemmeno da morti si sfugge al lavoro, siccome anche da morti bisogna produrre e far girare l’economia. Fido è lo zombie-schiavo acquistato da un apparentemente perfetta famiglia dei sobborghi; al pari di un elettrodomestico, il morto resuscitato diventa un must have nelle case di tutti. Ma Fido dimostrerà di avere dei sentimenti e diventerà l’amico fidato del giovane protagonista.
Sul tema della schiavizzazione del non-morto, ma qui siamo lontani dalla commedia, consiglio per i più temerari “Miss Zombie” (2013) e “Deadgirl” (2008), entrambi incentrati sul tema dell’appropriazione del corpo femminile.
Ri-umanizzazione del mostro
E se si potesse invertire il processo di zombificazione? La saga di “Twilight” ha dimostrato che il mostro classico può diventare il belloccio protagonista di una commedia romantica. Nell’era post–Twilight, dunque, era ovvio che arrivasse anche lo zombie innamorato: nel 2013 esce “Warm Bodies”, con protagonista uno zombificato Nicholas Hoult, il cui cuore ritorna a battere grazie alla forza dell’amore.
Lontano dalle atmosfere leggere da teen movie è invece “The Cured” (2017). Il presupposto è più o meno lo stesso, ma la riflessione è più profonda e la trama va oltre: cosa accade dopo che si è ritornati umani? Una cura infatti ha permesso alla maggior parte della popolazione infettata di ritornare umana. Il rientro in società non sarà affatto semplice, sia perché chi non si è mai infettato continua a vedere come mostri questi “risanati”, sia perché in questi ultimi è ancora vivo il ricordo di ciò che hanno fatto (e mangiato) mentre erano zombie.
Chiudiamo questo viaggio con un film di zombie che in realtà è un anti–zombie movie: “Zombie contro zombie” (“One cut of the dead”) del 2017. Dopo una prima mezz’ora di piano sequenza, questa pellicola giapponese cambia tono aprendo una riflessione sul mondo dei cineasti e delle difficoltà che riscontrano durante la creazione di un film. Non c’è bisogno di dire altro perché questo film di “zombie senza zombie” va scoperto a scatola chiusa.
Per questioni di economia non è stato possibile citare tutti i film di zombie degni di nota, ma in conclusione credo meritino una menzione di onore i seguenti:
“Rec” del 2007, di Jaume Balagueró e Paco Plaza, incubo claustrofobico girato in stile found footage in un condominio infestato da zombie rabbiosi. Da guardare anche “Rec2” e “Rec3”, ma scordatevi del quarto.
“Train to Busan” del 2016, film sudcoreano dal ritmo serrato ambientato su un treno in corsa. Nonostante la velocità, il tempo per il dramma familiare e il finale strappalacrime riesce a trovarlo eccome.
“Burying the ex” diretto dal grande Joe Dante (2014), commedia romantica e scorretta con protagonista un patito del cinema dell’orrore (interpretato dal compianto Anton Yelchin), costretto a dividersi tra l’ex fidanzata rediviva che non vuole più e la nuova fiamma appassionata di horror come lui.
“I morti non muoiono” (2019) di Jim Jarmusch, film anti–action e metacinematografico con un cast stellare, un’apocalisse inevitabile annunciata fin dall’inizio, una situazione surreale in cui niente più ha senso.
E infine, per quanto non sia tra i miei “personali favoriti”, una menzione la merita anche la saga di “ResidentEvil”, fanta–horror–action basata sull’omonimo videogame.
Qualunque sia la sua declinazione, finché riuscirà ad evolversi insieme alla nostra società, lo zombie non si estinguerà mai; io sono curiosissima di vedere dove approderà negli anni a venire.