LA RIVOLUZIONE DEL VIDEOCLIP DI “THRILLER”
Prima dell’avvento di “Thriller” (1982), che rivoluzionò il genere, i videoclip musicali avevano una struttura ben distinta. Non vi era una sceneggiatura ben definita, e si trattava infatti della semplice messa in scena del cantante durante l’esecuzione del brano.
Invece, nel caso in cui la canzone prevedesse una coreografia, assieme all’interprete i ballerini eseguivano i consueti passi di danza.
Ma, per quanto i videoclip fossero seguiti dal grande pubblico, non aggiungevano niente di nuovo oltre alla riproduzione del brano.
La storia dei videoclip cambiò all’inizio degli anni ’80.
Dopo il successo di “Animal House” (1978), John Landis accettò di dirigere “The Blues Brothers”, un film divenuto cult nel momento stesso in cui uscì nelle sale cinematografiche nel lontano 1980. Frutto del genio di Dan Aykroyd, “The Blues Brothers” è la storia di due fratelli musicisti, Elwood e Jake Blues, (Aykroyd e John Belushi) intenzionati a riunire la loro band per salvare l’orfanotrofio dove sono cresciuti. Oltre ai due attori protagonisti, il film vanta la presenza di vere e proprie icone del Blues, del Soul, come James Brown, Cab Calloway, Ray Charles, John Lee Hooker e Aretha Franklin, che contribuirono a creare una colonna sonora che ancora oggi viene considerata tra le migliori di tutti i tempi.
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Landis pensò che la travolgente energia della colonna sonora sarebbe stata un successo per “The Blues Brothers”, e propose alla Universal di produrre un disco con le canzoni presenti nel film. Purtroppo la casa di produzione rifiutò l’offerta di Landis, convinti che l’album non avrebbe avuto il successo sperato e che sarebbe stato apprezzato solo dalla comunità afroamericana. Landis non si arrese così facilmente, e riuscì a convincere la Atlantic Records a produrre il disco.
Ci vollero ancora due anni perché la storia della musica potesse subire uno scossone. E tutto questo grazie alla collaborazione di John Landis e Michael Jackson.
Jackson, dopo la visione di “Un lupo mannaro americano a Londra” (1981), diretto da Landis, folgorato dalla bellezza del film e dal trucco di Rick Baker, propose a Landis la realizzazione di qualcosa che mai nella storia della musica avrebbero immaginato di poter fare: un piccolo “film” musicale che facesse da videoclip per “Thriller”, il singolo di Michael Jackson tratto dall’omonimo album.
A distanza di molti anni, se oggi ci soffermiamo a guardare il videoclip di “Thriller”, capiremo la grandezza dell’idea che fu di Michael Jackson. “Thriller” infatti ha tutte le caratteristiche di un film: una buona sceneggiatura, effetti speciali e una coreografia che in breve tempo è diventata una delle più imitate di sempre. Ricordiamo che John Landis diresse un documentario sul set di “Thriller” dal titolo “Making Michael Jackson’s Thriller” della durata di 45 minuti.
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L’uscita dell’album, il 1 dicembre 1982, segnò uno dei momenti più importanti della cultura pop del XX secolo. La musica di Michael Jackson riuscì, finalmente, ad abbattere le enormi barriere sociali e culturali che l’America si portava appresso. Proiettando il suol, il funk e l’R&B, considerati fino ad allora generi legati alla comunità afro, verso un pubblico generalista. Ballare sulla musica di “Thriller” era diventata un’incredibile esperienza di massa, e “Billie Jean” (altro brano presente nell’album) divenne il primo videoclip di un cantante di colore trasmesso su MTV.
Sulla scia del successo planetario di “Thriller”, le case discografiche spinsero altri artisti a produrre videoclip girati come se fossero dei veri e propri cortometraggi. Negli anni ’90 questo fenomeno raggiunse l’apice. Grazie a questa nuova era, giovani registi e registi già affermati, come Martin Scorsese, esibirono la propria creatività. Non c’erano limiti all’immaginazione, non c’erano censure, quindi la libertà d’espressione era totale.
LIBERTÀ DI ESPRESSIONE
John Landis tornò a lavorare con Michael Jackson qualche anno più tardi, esattamente nel 1991, per la realizzazione di “Black Or White”, altro cortometraggio musicale che rivoluzionò il mondo dei videoclip.
“Black Or White” è un’importante glorificazione del multiculturalismo che tuttora trasmette un messaggio di uguaglianza razziale. Non solo. È stato il primo video musicale ad usare la tecnica del morphing per sovrapporre le immagini e fare in modo che la trasformazione dei volti in primo piano apparisse graduale e fluida.
I video di Michael Jackson tra gli anni ’80 e ’90 erano considerati dei veri e propri cortometraggi. Se si pensa a “Smooth Criminal”, che vanta una durata di circa nove minuti, e “They Don’t Care About Us”, diretto da Spike Lee, anch’esso intorno ai sette minuti.
Nel 1986 fu Scorsese a dirigere il video di “Bad”, creando un vero e proprio cortometraggio con una storia e diviso in due parti: la prima parte è in bianco e nero, più realistica e biografica.
Ma concentriamoci sulla storia di “Bad”, il videoclip di Jackson basato su un reale fatto di cronaca.
Vediamo il personaggio interpretato da Jackson, Daryl, che ritorna a casa nel suo vecchio quartiere di New York. Daryl, dopo essere tornato dal college, deve affrontare i suoi vecchi amici ( tra i quali riconosciamo Wesley Snipes in uno dei suoi primi ruoli da attore), che cercano di trascinarlo verso un lato oscuro colmo di delinquenza.
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Nel momento in cui la scena si sposta nella metro di Hoyt-Schermerhorn Streets, già set de “I guerrieri della notte”, inizia la seconda parte del videoclip, con balletti e borchie in puro stile anni ’80. Dopo il successo di “Thriller”, non fu affatto facile cercare di realizzare un videoclip all’altezza del corto diretto da John Landis. Scorsese, aiutato da una solida sceneggiatura, scritta da Edmund Perry, che con il regista aveva già collaborato nel film “Il colore dei soldi”, scrisse “Bad”. Si ispirò ad un vero fatto di cronaca accaduto nel 1985, quando Edmund Perry, un ragazzo di Harlem che studiava in una scuola prestigiosa, fu ucciso a sangue freddo da un poliziotto in borghese che sosteneva che Perry avesse cercato di derubarlo.
Il risultato fu che “Bad” divenne un successo. Un “piccolo” successo della durata di appena diciotto minuti!
L’ARTE DEI VIDEOCLIP – I REGISTI E L’ARTE DELLA SPERIMENTAZIONE
Come già scritto, molti furono i registi (anche ad inizio carriera) che si approcciarono all’arte del videoclip. Iniziarono a considerarlo un buon modo per fare pratica prima di riuscire ad entrare nell’industria cinematografica.
Molto prima di “Seven” e “Fight Club”, David Fincher aveva alle spalle una lunga carriera da regista di videoclip musicali. Aveva lavorato con Sting per la realizzazione di “Englishman in New York”, con gli Aerosmith per “Janie’s Got a Gun” e in più di occasione con Madonna. Con quest’ultima, nel 1990 realizzò il video di “Vogue”, girato in uno splendido bianco e nero.
Fincher ebbe una particolare attenzione e minuzia nel ricalcare i dettagli, le linee e le forme dei ballerini e della stessa Madonna. Ispirato alle atmosfere dei locali gay di New York, “Vogue” è un’alternanza di primi piani in perfetta armonia con lo stile anni ’80 e ’90 e con la moda della golden age americana, con pose fotografiche, imitando le modelle che comparivano sulle riviste.
Nello stesso anno David Fincher realizzò un altro videoclip destinato ad entrare nella storia della musica: “Freedom 90”, di George Michael.
Stanco dell’ormai vecchio status da sex symbol che aveva caratterizzato la sua carriera insieme agli Wham! e, soprattutto dopo il primo album da solista, “Faith” (1987), decise che era ormai arrivato il momento per lui di abbandonare la scena.
Almeno fino a quando nel 1990, George Michael non volle distruggere simbolicamente la propria immagine creata da un marketing troppo ingombrante, per seguire un nuovo percorso artistico più autonomo. Scelse così di presentare il “nuovo sé stesso” grazie al brano “Freedom 90”, scritto, eseguito e prodotto in completa autonomia. “Freedom 90” segnò quindi il cambiamento d’immagine di George Michael, distruggendo simbolicamente il passato del cantante: giubbotto di pelle, chitarra e jukebox.
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Anche Spike Jonze, autore di film come “Lei – Her”, “Essere John Malkovich” e “Nel paese delle creature selvagge”, parallelamente ha una lunga carriera da videomaker che può vantare collaborazioni (tra gli altri) con i Beastie Boys, i R.E.M., Puff Daddy e i Chemichal Brothers.
Nel 1995 il suo talento lo portò a collaborare con Bjork per il video “It’s Oh So Quiet”, cover del successo del 1951 di Betty Hutton. Per omaggiare il brano originale, Spike Jonze inserì nel video coreografie degne dei grandi musical degli anni ’50.
Sempre parlando di Jonze, tre anni più tardi diresse, assieme a Roman Coppola (figlio di Francis Ford), il video di “Praise You” dei Fatboy Slim. Si tratta di una rappresentazione di un flashmob fuori da un cinema di Los Angeles, in cui lo stesso Jonze è il protagonista insieme ad altri ballerini improvvisati che danzano, senza nessuna logica e scoordinati.
Il tutto attraverso le note di “Praise You”. Fu incredibile la buona riuscita del videoclip, considerato il basso budget a disposizione. Il video di Jonze costò appena 800 dolllari.
Un’inezia se consideriamo che la maggior parte dei videoclip tra gli anni ’80 e ’90 aveva dei budget altissimi.
Se si parla di videoclip degli anni ’90 non si può non citare Jamiroquai. Nel 1996 la band produsse la canzone “Virtual Insanity”, il cui video si svolge all’interno di una stanza con al centro Jason Kay (il cantante della band). Attorno a lui tutto cambia costantemente, i mobili si spostano, appaiono dal nulla e scompaiono.
Il videoclip quindi aveva acquisito un’importanza rilevante nel panorama musicale. Temi sociali come razza, uguaglianza, povertà, femminismo, o di denuncia contro ogni atto di violenza, erano alla base della maggior parte dei videoclip che venivano realizzati e mostrati al grande pubblico.
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Un altro esempio di videoclip rivoluzionario, è la canzone inno degli anni ’90. “Zombie” dei Cranberries. L’immensa voce di Dolores O’Riordan, che nel video appare interamente coperta d’oro, era una denuncia contro la violenza diffusa in Irlanda del Nord a causa degli attentati dell’IRA, in una guerra durata 30 anni (dal 1968 al 1998). All’interno del videoclip son presenti riprese di repertorio, che mostrano una città devastata dalla guerra e soldati britannici armati in uniforme. Immagini forti, che si alternano con la figura di Dolores, in uno dei videoclip più significativi del XX secolo.
“Bitter Sweet Simphony”, il grande successo dei Verve del 1997, è una delle canzoni simbolo del decennio. Nel video, il frontman Richard Ashcroft cammina lungo Hoxton Street (Londra). Il protagonista del video ha un solo obiettivo: guardare di fronte a sé, al futuro, continuando a camminare senza interrompersi mai, non curante di chi gli sta intorno.
I videoclip influenzarono molto l’industria discografica, tanto che con l’avvento di questa nuova arte le vendite dei dischi aumentarono vertiginosamente.